La delegazione di europarlamentari del Pd inviata per visitare il campo profughi di Lipa è riuscita ad entrare in Bosnia due giorni fa, dopo essere stata fermata dalla polizia di frontiera in Croazia. L’incendio del 23 dicembre scorso ha distrutto il campo e i profughi, in gran parte originari del Pakistan e dell’Afghanistan, si trovano ora a dover affrontare il rigido inverno bosniaco. Per loro non è ancora stata trovata una sistemazione alternativa. «Siamo al campo di Lipa e questo è ciò che abbiamo davanti: freddo, neve, centinaia di persone accampate e in attesa di risposte. Una situazione disumana, davanti alla quale noi europei non possiamo stare a guardare», ha denunciato su Facebook il capodelegazione Brando Bonifei, postando alcune foto ed elogiando il lavoro e «la solidarietà straordinaria e commovente degli operatori delle associazioni umanitarie». Un impegno che però non basta: «serve una politica più vicina e attenta che, con canali umanitari per l’emergenza e soluzioni strutturali efficaci per la politica dell’immigrazione, superi queste situazioni inaccettabili».

Siamo al Campo di Lipa e questo è ciò che abbiamo davanti: freddo, neve, centinaia di persone accampate e in attesa di…

Pubblicato da Brando Benifei su Domenica 31 gennaio 2021

L’emergenza – Il campo di Lipa, situato a nordovest della Bosnia-Erzegovina, al confine con la Croazia, considerato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, un luogo inadeguato per ospitare i migranti, è stato distrutto dall’incendio lo stesso giorno in cui ne era stata annunciata la chiusura. Le autorità bosniache tuttavia non hanno trasferito i migranti in strutture più accoglienti e hanno allestito alcune tende riscaldate vicino al vecchio campo, nell’attesa che questo venga ricostruito con gli standard adeguati. Ma il numero di ripari non è risultato sufficiente per la quantità di persone che ospitava il campo: molti ora vivono in rifugi di fortuna nel bosco vicino, altri, fuoriusciti dal sistema di accoglienza, hanno trovato rifugio nel cantone di Una Sana in baracche e palazzi abbandonati. Bloccati in una “terra di mezzo” da cui non possono scappare, senza acqua, servizi igienici, riscaldamento, elettricità e spesso senza indumenti adatti al rigido inverno dei Balcani: la polizia bosniaca impedisce alle persone di lasciare la zona e i pochi che riescono a raggiungere il confine con la Croazia vengono fermati e sono spesso vittime di violenti pestaggi e abusi di ogni genere. Anche l’Italia conferma le difficoltà nella gestione degli ingressi, respinge i richiedenti asilo: secondo dati del Viminale, tra gennaio e novembre 2020 la polizia di Trieste e Gorizia ha “rispedito al mittente” 1.240 persone. La situazione si è inasprita anche a causa della pandemia di Covid-19.

La rotta balcanica – Dall’Medioriente alla Croazia, passando per la Grecia e la Turchia, l’Albania, la Bosnia, la Serbia, il Montenegro. La “rotta balcanica” è solo uno dei tanti percorsi che molti profughi provenienti dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, e non solo, scelgono per cercare di raggiungere l’Europa. Secondo un rapporto della Onlus “Progetto Melting Pot”, circa un terzo delle persone che intraprendono questo viaggio sono minori. L’ “annus horribilis” per la rotta balcanica è stato il 2015 quando sono stati 1,8 milioni gli “attraversamenti irregolari delle frontiere” europee. Proprio nel 2015 venne scattata dalla fotografa turca Nilufer Demir la foto di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni, il cui corpo fu ritrovato in Turchia riverso su una spiaggia. L’immagine scioccò l’opinione pubblica e da quel momento è diventata uno dei tanti simboli della crisi migratoria in atto. Una crisi per la quale l’Unione europea continua a non avere una risposta.