Bocciato il suo accordo sulla Brexit con l’Unione Europea, ma ancora al governo. La premier inglese Theresa May ha visto respinta la mozione di sfiducia votata ieri alla Camera dei Comuni con un margine molto sottile (325 a 306). Il giorno precedente, lo stesso Parlamento aveva disapprovato il piano d’uscita dall’Europa, frutto di lunghe trattative con la Commissione e il Consiglio europei, con un divario molto più ampio (423 voti a 202). La leader ha subito organizzato una serie di incontri tra maggioranza e opposizioni per recuperare consensi, sia all’interno del suo Partito Conservatore che tra gli alleati di governo e le forze rivali. L’obiettivo è quello di poter approvare a breve un nuovo programma d’uscita, da presentare poi agli altri capi di Stato europei e ai vertici dell’Unione. Questi ultimi hanno però iniziato a prendere in seria considerazione l’idea del no-deal, ossia di una Brexit senza accordi, organizzandosi conseguentemente.

La trattativa interna – Subito dopo il voto di sfiducia, la May ha aperto dei negoziati con i rispettivi ministri e le personalità più autorevoli dei partiti d’opposizione. Se la maggior parte ha risposto agli appelli, Jeremy Corbyn, leader del Partito Laburista, si sta rifiutando di partecipare agli incontri. Pretende, come condizione, che venga tolta dal tavolo l’opzione del no-deal, altrimenti, ha dichiarato, il ricorso anticipato alle urne sarebbe l’unica alternativa possibile. Una concessione che i conservatori non sono disposti ad accettare, nonostante l’urgenza: secondo una mozione approvata a inizio anno dal Parlamento, il governo sarebbe stato obbligato a presentare, entro tre giorni lavorativi, un nuovo piano per Brexit nel caso in in cui il primo non fosse andato a buon fine. Essendosi verificato questo scenario, la May ha tempo fino a lunedì 21 gennaio per delineare una nuova bozza di programma d’uscita, sulla quale la Camera dovrebbe poi esprimersi entro una settimana. Al momento però, le posizioni sembrano inconciliabili.

Il nodo del backstop – Oltre al problema delle dogane commerciali, si discute sul confine tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord. Il backstop presente nel vecchio accordo, ossia l’idea di un confine leggero simile a quello attuale, che non preveda rigidità di controlli al confine, trova contraria una larga fetta dei tories e, per ragioni opposte, gli scozzesi del SNP (Scottish National Party) e i nordirlandesi del DUP (Democratic Unionist Party). Se i primi pretendono di ricevere lo stesso trattamento, i secondi, sostenitori del governo, temono un graduale distacco dal Regno Unito e un riavvicinamento in orbita irlandese.

Le trattative esterne – Il caos nella politica inglese ha indotto i maggiori partner commerciali a cautelarsi. Edouard Philippe, primo ministro francese, ha annunciato questa mattina, 17 gennaio, di aver attuato un piano anti-Brexit che «comporta misure legislative e misure giuridiche che puntano a fare in modo che non ci sia interruzione dei diritti e che i diritti dei nostri connazionali o delle nostre aziende siano effettivamente protetti». Sul piano pratico, saranno stanziati in caso di necessità, attraverso tre ordinanze, fondi pari a 50 milioni di euro per il potenziamento di porti e aeroporti. Anche la Germania si sta organizzando su come affrontare la questione e se approvare o meno leggi specifiche, sebbene Angela Merkel, la cancelliera tedesca, non voglia concedere troppi margini al vento populista.

Lo spettro incombente – Il 29 marzo ci sarà la scadenza dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che regola l’uscita dall’Unione Europea di un Paese membro. Il termine ultimo entro cui la May può concordare accordi interni ed esterni. Al momento, la migliore delle soluzioni possibili sembra essere la richiesta del rinvio della scadenza, per poi continuare a trattare con l’Europa con più serenità. Una pista che gli altri Stati europei sono disposti a concedere, a patto che il primo ministro inglese si presenti al tavolo delle trattative con una proposta concreta. Se ciò non dovesse accadere, e la situazione di stallo dovesse prolungarsi, il rischio sempre più imminente è quello del no-deal, ossia dell’abbandono senza una preventiva stesura di accordi doganali alternativi. Un’opzione che manderebbe nel caos le frontiere, con ricadute pesanti sui trasporti e sul commercio. Se l’ipotesi spaventa ovviamente il Regno Unito, anche gli altri Paesi temono per la ricaduta sulle loro economie. Per questa ragione, nonostante in passato siano state spesso smentite ipotesi di nuovi negoziati da parte dei leader europei, si potrebbe arrivare a una distensione per scongiurare un pericolo che penalizzerebbe tutte le parti in causa.