Il protezionismo è nel dna di Trump, ma potremmo ritrovarlo anche nelle politiche di Harris. E gli interessi americani continueranno a essere distinti da quelli europei, a prescindere da chi vinca. Questa l’analisi di Piero Graglia, professore ordinario del Dipartimento di studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università Statale di Milano.
L’ex presidente Trump ha promesso più protezionismo, nuovi dazi verso i prodotti esteri importati in Usa. In caso di vittoria, sarebbe all’orizzonte una nuova guerra commerciale a livello globale?
«Un conto è l’affermazione buy american, coniata da Richard Nixon e poi sposata da tutti i presidenti, repubblicani e democratici, sia in campagna elettorale sia poi durante i mandati. Diverso è declinare questo orientamento, l’interesse nazionale, con misure pratiche che possono essere restrittive. I dazi hanno una particolarità: quando li applichi c’è la reciprocità. Il problema degli Usa è che non sono più una nazione con un preponderante settore manifatturiero, ma hanno appaltato gran parte della produzione alla Cina. Non puoi far guerra a chi produce i beni che tu vendi all’interno del tuo mercato, perché la Cina produce tanti beni semi-lavorati che poi tornano in America e ricevono l’etichetta Made in Usa. Quindi non vedo questo rischio generalizzato, ma quello concreto che Trump, assolutamente imprevedibile, possa adottare misure da mad dog (letteralmente, cane pazzo) sul piano economico, spaventando i mercati internazionali. Quindi decisioni estemporanee per quanto riguarda i tassi di interesse, o anche misure protezionistiche mirate a determinati settori, che possono portare delle conseguenze a livello sistemico».
La candidata dem Kamala Harris ha toccato in modo marginale in campagna elettorale le tematiche commerciali. Secondo lei, quale sarà la sua linea qualora fosse lei ad essere eletta?
«Un orientamento protezionista potrebbe essere adottato anche da Kamala Harris: è moderatamente progressista, ma sappiamo poco di lei. Trump è un personaggio imprevedibile ma noto. Harris è una persona che proviene da un’esperienza consolidata ma si sa pochissimo della sua visione economica e del suo atteggiamento per quanto riguarda il partner politico-militare principale degli Usa, l’Unione europea».
Secondo lei, quale modello di partnership commerciale potrebbe favorire il processo di integrazione europea?
«L’Unione europea ha un grande problema: deve diventare maggiorenne. Per molti versi, ragiona ancora come un minorenne tenuto sotto tutela e, allo stesso tempo, il tutore si aspetta che questo minorenne si emancipi. L’Ue ha perso tanto tempo. Da fine anni ’80, inizio anni ’90, veniva richiesto all’Europa, che diventava Ue, maggiori responsabilità. Da un lato, è cresciuta sul piano economico e commerciale, diventando un problema per gli Usa, ma soprattutto per l’ex Unione sovietica. Dall’altro lato c’è “l’amico americano”, che spesso non è così amico. E noi non siamo stati così amici degli Usa in molte occasioni, a partire dalla guerra al terrore lanciata da G. W. Bush, che venne cassata da gran parte degli europei. Non mi aspetto amicizia dagli Usa in assoluto, sulla base dell’esperienza storica. Gli Usa sono stati curatori e tutori dell’Europa occidentale, ma una vera amicizia fondata su interessi comuni non c’è. C’è una vicinanza fondata sui valori, ma interessi distinti».