Venti di guerra o raffiche di retorica. Prassi militari o mosse senza precedenti. Restano tutte da definire le azioni m ilitari cinesi introneo a taiwan. Una cosa è comunque sicura: dopo i tre giorni di esercitazioni aereo-navali di Pechino intorno a Taiwan, con tanto di spauracchio per una no-fly zone di tre giorni (poi diventata di 27 minuti con l’aggiunta di un’interdizione alla navigazione), la tensione tra le due sponde dello Stretto è tornata sotto i riflettori della comunità internazionale. Taipei e Pechino parlano di “preparazione” dei rispettivi eserciti, con il presidente cinese Xi Jinping che in occasione di un’ispezione della marina del Comando del teatro orientale ha chiesto di «rafforzare l”addestramento militare orientato al combattimento reale». Pronta la risposta del ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu, che in un‘intervista alla Cnn ha dichiarato che «Taiwan deve prepararsi a combattere».
Le manovre – Ventisei jet e sette navi nella regione circostante Taiwan. Quattordici di questi dentro la zona di identificazione di difesa aerea taiwanese. Sono le rilevazioni condivise dal ministero della Difesa di Taiwan sulle operazioni cinesi che hanno attraversato la linea mediana dello Stretto di Taiwan da nord, dal centro e da sud nelle ultime ventiquattro ore. Uno scenario a cui le forze taiwanesi sono abituate da tempo e che ha visto l’esercito cinese erodere lo spazio di manovra di Taipei in modo progressivo negli ultimi anni. A livello di estensione e impatto sulle linee aeree e di navigazione commerciale, le esercitazioni di questi giorni appaiono ridotte rispetto al punto massimo di escalation tra Taipei e Pechino, avvenuto lo scorso agosto a seguito della visita dell’allora speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi a Taipei, visita che la Cina aveva considerato una grave provocazione statunitense. Meno incursioni e nessun lancio di missili come invece accaduto allora. A livello qualitativo però, una novità sostanziale: «L’impiego della portaerei Shandong a largo della costa orientale di Taiwan mostra una crescente capacità da parte di Pechino di presidiare una zona strategicamente importante per Taipei nel caso di un’invasione», spiega a La Sestina Lorenzo Lamperti, giornalista freelance di base a Taipei. «La sfida di Pechino è provare a dimostrare all’esterno che è in grado di presidiare quella costa. Solo da lì Taipei potrebbe ricevere aiuti dall’esterno in caso di blocco o invasione. Per il momento però non ha ancora i mezzi per riuscirci completamente».
“Preparazione”- Anche a livello di percezione, le manovre di questi giorni sembrano avere infiammato le parole dei politici, ma non l’opinione pubblica taiwanese. «L’allarmismo nelle parole di Wu serve anche a tenere viva l’attenzione verso la causa taiwanese a livello internazionale. Ma la comunicazione interna è invece volta a dire alla popolazione che la situazione è sotto controllo per non generare panico», continua Lamperti. «Quello che preoccupa maggiormente Taipei sono le prassi operative su base quotidiana, come i pattugliamenti della guardia costiera cinese con controlli a bordo e la normalizzazione delle manovre navali, militari e non, sullo Stretto». Si tratta di brevissime ma ripetute incursioni da parte di Pechino nello spazio di identificazione aerea (e adesso anche navale) di competenza taiwanese, finalizzate, secondo la strategia di Pechino, a normalizzare la presenza cinese in territori taiwanesi. Un’erosione costante di quella linea mediana di demarcazione dello stretto, che alla “Repubblica di Cina, Taiwan” (questo il nome ufficiale dell’isola-Stato) pesa molto più delle minacce di riunificazione armata lanciate dai leader di Pechino a favore di telecamera. «Prima di arrivare a una vera e propria invasione ci sono altri step che andranno fatti. Il prossimo verosimilmente sarà cercare di rendere il mare di Taiwan un mare interno di competenza cinese spostando gradualmente il confine con queste manovre», spiega Lamperti. Per diversi analisti, la meta temporale sarebbe da trovarsi nel 2027, anno di conclusione del terzo mandato di Xi e anniversario del centenario dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese. Per allora il presidente cinese ha dichiarato che l’EPL dovrà essere «ammodernato e pronto a combattere». Ma una guerra su larga scala non sembra essere nei piani del Partito.
Lo snodo semiconduttori – Al netto delle speculazioni temporali, Taiwan si trova in mezzo a due fuochi. Oltre a essere ricordata come l’unica vera democrazia in Asia, Taipei ricopre un ruolo fondamentale nella catena dei semiconduttori, materiali alla base di tutti i prodotti tecnologici di largo consumo ed è per questo diventata elemento centrale nello scontro tra Cina e Stati Uniti. Il 60% della produzione globale di semiconduttori passa da Taiwan, così come i microchip più avanzati. Negli ultimi due anni Washington ha operato sul fronte normativo e commerciale per accerchiare la Cina e tagliarla fuori dalla filiera globale, nel tentativo di rallentarne (e poi ostacolarne attivamente) il progresso tecnologico. Anche per questo i rapporti tra Taipei e Pechino si sono deteroriati, con gli Stati Uniti che sembrano avere abbandonato il loro storico ruolo di “arbitro” nella questione taiwanese. Dove Pechino considera Taiwan parte inderogabile del proprio territorio e Taipei si considera indipendente de facto ma non formalmente, Washington aveva tradizionalmente scoraggiato l’azione militare di Pechino fornendo armi a Taipei ma al contempo, non riconoscendo Taiwan come Paese indipendente, garantiva a Pechino il mantenimento dello status quo. «Questo ruolo è stato eroso nel tempo, sia perché gli Usa hanno cambiato postura, sia perchè la Cina è diventata più militarmente pronta e potenzialmente aggressiva», spiega Lamperti. «I semiconduttori sono un elemento di parziale deterrenza, o di parziale accelerazione, qualora gli Usa riuscissero davvero a limitare le forniture. Pechino mira a riprendere Taiwan per quella che è la storia delle due sponde dello Stretto, non per i semiconduttori, anche se questo rimane un elemento importante. e pronto a combattere».