Nella notte tra sabato 29 e domenica 30 novembre tre volontari italiani, due donne e un uomo, e un’attivista canadese sono stati aggrediti a calci e pugni da un gruppo armato di coloni israeliani. L’assalto è avvenuto intorno alle 4 del mattino nel villaggio di Win al-Duyuk, nel cuore della periferia di Gerico, una delle città più antiche del mondo. I volontari, ora in un appartamento a Ramallah messo a disposizione dall’associazione Faz3a (che si legge Faz’a) di cui fanno parte, sono stati prima trasportati all’ospedale di Gerico, per poi essere trasferiti.

Violenza istituzionalizzata – Del fatto ha parlato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha definito l’episodio «gravissimo», e ha chiarito che cosa facessero i tre italiani in Cisgiordania: «I membri di Faz3a sono giovani cooperanti che supportano le attività dei palestinesi nei territori più complicati. Accompagnano i bambini a scuola, aiutano gli agricoltori a fare la raccolta delle olive, una sorta di protezione civile per la popolazione». É quello che fanno attivisti internazionali da molti anni, fronteggiando rischi sempre più elevati perché la violenza dei coloni israeliani che vivono negli insediamenti illegali è cresciuta senza trovare impedimenti. «Sono gravissimi gli attacchi dei coloni ai contadini e ai pastori. Uccidono e rubano greggi, attaccano, protetti dall’esercito, i contadini che tentano di sopravvivere. Sono giovanissimi e fanatici messianici, sanno di agire nell’impunità, difesi dal loro governo, nel tentativo di isolare completamente la popolazione palestinese», ha spiegato l’ex europarlamentare Luisa Morganinti, una delle coordinatrici del progetto Faz3a, suggerendo che la violenza dei “ragazzi delle Colline” sia protetta dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, e che nemmeno gli appelli di Stati come Italia, Francia o Germania abbiano avuto un effetto pratico nella realtà violenta che si vive in Cisgiordania.

Cisgiordania - Gaza

Uno dei villaggi palestinesi attaccati dai coloni in Gisgiordania.
Fonte: Ansa

Racconto da Duyuk – «Sono entrati in dieci e hanno iniziato a prenderci a calci e pugni. Erano tutti mascherati e ci hanno tirato addosso del liquido che alle prime sembrava alcool», inizia così il racconto di Rutte (nome di fantasia utilizzato per proteggere l’identità di una delle attiviste) a La Repubblica, in cui viene descritta la violenza subita nella notte di sabato 29 novembre. «Eravamo nel villaggio di Duyuk nella zona A, dunque sotto il controllo dell’autorità nazionale palestinese, e dove in teoria i coloni non potrebbero entrare. Eravamo tre italiani, due donne e un uomo, e una donna canadese, tutti lì per fare presenza solidale». Una missione di sostegno alla popolazione palestinese, che nel solo mese di ottobre 2025 – il peggiore degli ultimi due anni – ha registrato 264 attacchi da parte di coloni israeliani. Secondo il censimento Onu del marzo 2023, sono circa 279 le colonie israeliane in Cisgiordania. Fortemente volute dai governi Netanyahu, tutte – o quasi – sono state costruite illegalmente e accolgono fanatici violenti come gli esponenti della “Hilltop youth” (o “giovani delle Colline”), che sapendo di agire impunemente distruggono villaggi palestinesi, attaccano i volontari internazionali e cercano di limitare la diffusione di quale sia la realtà in quelle terre. «Quando l’attacco è finito, circa 20 minuti dopo l’inizio, ci siamo accorti che tutti i nostri effetti personali erano spariti. Portafogli, passaporti, telefoni e zaini, tutto portato via. La nostra intenzione è rimanere e tornare per il bene dei beduini, ma bisognerà capire se riusciremo a partire senza problemi», completa Eddie (altro pseudonimo per la seconda attivista italiana) intervistata da La Stampa, «Abbiamo denunciato i fatti alla polizia palestinese che dovrebbe poi passare la notizia a quella israeliana. Domani dovremo andare a Ma’ale Adumim, un insediamento di coloni che di fatto è ormai una città tra Gerico e Gerusalemme, per sporgere denuncia e sperare di riavere i documenti».

Numeri – Il luogo dove si sono consumate le ultime violenze dei coloni ha come sfondo le alture sabbiose di Ein al-Duyuk, qualche chilometro a ovest di Gerico, dove beduini palestinesi vivono tra le rovine archeologiche. Dune di sabbia dorata nascondono alla vista le oasi lungo il corso dei wadi che alimentano il Giordano. Lì è il 1993 lo spartiacque: sin dagli Accordi di Oslo il territorio è ripartito tra Area A (sotto il pieno controllo civile palestinese) e Area C (sotto il pieno controllo israeliano). Una situazione al limite che ha favorito l’incremento della violenza israeliana: alcune comunità locali sono state sradicate, le terre confiscate dai coloni per i loro insediamenti. Secondo l’associazione Peace Now, dal 7 ottobre 2023 gli israeliani hanno costruito più di 1000 nuove barriere in Cisgiordania, mentre secondo il quotidiano Yeodioth Ahronoth sono state costruite circa 48mila nuove case negli insediamenti illegali solo durante l’ultimo mandato di Netanyahu, che arriveranno a 50mila entro la fine del 2025 e che ospiteranno parte dei 500mila coloni israeliani illegali e violenti presenti in Cisgiordania. Sempre nello stesso periodo, circa 2.600 ettari di terra sono stati confiscati e dichiarati “territorio statale” da Israele, pari a poco meno del totale (2.800 ettari) confiscato negli ultimi 27 anni.

Processo a Bibi – Una violenza che si consuma a una settimana dal blocco che sei parlamentari del Pd hanno subito sulla strada di rientro da Gerusalemme a Gerico per l’ennesimo raid israeliano, e dall’esposto che Francia, Italia, Gran Bretagna e Germania hanno emanato contro i continui attacchi da parte dei coloni: «Le attività destabilizzanti rischiano di compromettere il successo del piano per Gaza e le prospettive di una pace e sicurezza nel lungo termine», si legge nella nota. La notizia non è però arrivata sui siti di informazione israeliani, tutti impegnati con lo scossone politico innescato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha formalmente presentato una richiesta di grazia al presidente Isaac Herzog per il suo processo per corruzione, iniziato sei anni fa. Il leader israeliano non ha ammesso la sua colpevolezza né l’intenzione di lasciare la guida del Paese ma, anzi, sostenendo che «l’interesse pubblico impegna diversamente», perché, ha scritto nella lettera al capo dello Stato, il procedimento giudiziario paralizza la sua capacità di governare. Herzog ha risposto che la prenderà «in seria considerazione» lasciando poco spazio alle interpretazioni.