Case vuote, mura crivellate di colpi, interruzioni di elettricità e acqua corrente: potrebbe essere Gaza ma è Jenin, in Cisgiordania. L’operazione israeliana “Muro di ferro” è cominciata il 21 gennaio, due giorni dopo l’inizio del cessate il fuoco nella Striscia. Partita proprio da Jenin, l’offensiva si è poi espansa nel Nord della regione, colpendo in particolare i campi profughi di Tulkarem, Nur Shams e Far’a.
L’offensiva – Era dai tempi della seconda intifada (tra il 2000 e il 2005) che Israele non metteva in atto un’operazione così vasta e prolungata in Cisgiordania: per la prima volta dal 2002 i carri armati dello Stato ebraico sono entrati in West Bank. E non si sposteranno a breve: il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha annunciato che i campi palestinesi sono stati svuotati dall’esercito e che i soldati si preparano a occupare il territorio per almeno il prossimo anno. Sono state inoltre interrotte tutte le attività dell’Unrwa, l’agenzia umanitaria Onu che offre assistenza ai profughi palestinesi. L’obiettivo dell’offensiva è quello di «sradicare il terrorismo», ha spiegato il premier Benjamin Netanyahu, e «rafforzare la sicurezza in Giudea e Samaria», nomi biblici per indicare l’attuale Cisgiordania.
I numeri – Nell’ultimo mese in Cisgiordania i morti palestinesi causati dall’avanzata israeliana sarebbero più di 50, affermano le Nazioni Unite, tra cui almeno sette bambini. Sarebbero deceduti anche tre soldati israeliani. Secondo il gruppo Palestinian prisoner’s society le autorità israeliane hanno effettuato almeno 380 arresti, di cui 150 solo a Jenin. Ma il numero più grande è quello di chi decide di lasciare la propria casa: almeno 40mila persone sono scappate altrove, ha riportato Katz. Mai così tanti sfollati dal 1967, quando durante la Guerra dei sei giorni Israele ha occupato la West Bank e costretto alla fuga 300mila palestinesi.
A differenza di quanto spesso accaduto a Gaza, i residenti non abbandonano le proprie abitazioni perché ricevono l’ordine dall’esercito israeliano, ma sono spinti dalle difficili condizioni di vita provocate dall’occupazione: oltre a danneggiare le reti idriche ed elettriche, l’offensiva israeliana prevede coprifuochi, molti checkpoint per spostarsi da un punto all’altro della stessa città e numerose aggressioni ai civili. E se la pratica di demolire le case palestinesi era già diffusa prima del 7 ottobre tra i coloni israeliani insediati in Cisgiordania, dopo i massacri commessi da Hamas la situazione è drasticamente peggiorata: secondo l’agenzia Wafa sono almeno 915 (tra cui 182 minori) le vittime palestinesi dall’attacco di Hamas a Israele, mentre i feriti sono più di settemila.
Motivazioni – Non è da escludere che la quasi coincidenza tra l’inizio della tregua a Gaza e l’avvio dell’operazione a Jenin sia collegata al tentativo di Netanyahu di fermare i mal di pancia dei suoi alleati di governo. L’estrema destra israeliana è infatti contraria all’interruzione dei combattimenti nella Striscia, tanto che il ministro alla Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha reagito al cessate il fuoco presentando le dimissioni. Con l’attenzione del mondo concentrata su Gaza, Netanyahu sposta la guerra in Cisgiordania per accontentare quegli alleati fondamentali per mantenere in piedi il governo. E per evitare ancora di rispondere dei suoi guai giudiziari, tra cui le accuse di corruzione e di abuso di potere. Una grossa mano in questo senso arriva dal suo sponsor internazionale più potente: l’amministrazione Trump si candida a essere la più filo-israeliana della storia statunitense e il tycoon si è più volte detto favorevole all’occupazione della West Bank. Addirittura un leader del movimento dei coloni in Cisgiordania era presente il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, poco prima che il neoeletto presidente rimuovesse le sanzioni contro gli occupanti più violenti.