«Noi, ministri degli Esteri del G7 di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America e l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, esprimiamo profonda preoccupazione per le azioni provocatorie della Cina, in particolare le recenti esercitazioni militari su larga scala nei pressi di Taiwan». È questo il comunicato congiunto pubblicato ieri, 6 aprile, dalla presidenza canadese. Oggetto: l’ulteriore escalation delle tensioni fra le Due Cine, cominciata con il discorso pronunciato dal presidente taiwanese William Lai il 13 marzo e culminata nelle esercitazioni militari a sorpresa dell’esercito cinese, che dal primo di aprile si stanno svolgendo nelle acque dello Stretto di Formosa e tutt’intorno all’isola.
«Queste attività sempre più frequenti e destabilizzanti stanno aumentando le tensioni tra le due sponde e mettono a rischio la sicurezza e la prosperità globali. I membri del G7 e la più ampia comunità internazionale hanno interesse a preservare la pace e la stabilità», hanno aggiunto i ministri per poi ribadire: «Ci opponiamo a qualsiasi azione unilaterale che minacci tale pace e stabilità, anche con la forza o la coercizione».

Il climax – Il 13 marzo, il presidente di Taiwan Lai – definito dalla Cina un «secessionista radicale»– si era espresso duramente contro Pechino in una «riunione di alto livello sulla sicurezza nazionale», definendo la Repubblica Popolare Cinese una «forza straniera ostile», per poi presentare diciassette misure di contrasto alla campagna di “infiltrazione” messa in atto da Xi Jinping.
Come ha ricordato in un’intervista a Internazionale Lorenzo Lamperti, giornalista freelance che vive a Taipei, un altro elemento determinante nell’escalation potrebbe essere stato il viaggio diplomatico – il primo, per altro – del Segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth in Giappone e nelle Filippine, entrambi Paesi-chiave nella strategia di contenimento anti-cinese e di particolare importanza tattica in caso di contingenza bellica su Taiwan. Poche ore dopo il ritorno di Hegseth in America, infatti, Pechino ha dato il via all’operazione militare: un’esercitazione su più fronti, con l’obiettivo di simulare un blocco navale, per mostrare alla “provincia ribelle” che, in caso di invasione, rimarrebbe isolata, senza la possibilità di ricevere aiuti da altri Stati, in primis proprio dagli USA. Il 3 aprile, con la portaerei cinese Shandong che si stagliava minacciosa all’orizzonte, un alto generale taiwanese ha dichiarato che il governo dell’isola risponderà alla provocazione di Pechino con le esercitazioni militari più ampie mai condotte.

Taiwan e gli USA – Le tensioni che vanno accumulandosi nello Stretto di Taiwan si devono però collocare in un quadro più ampio, tanto storico quanto politico, considerando cioè sia i precedenti diplomatici, che l’attuale scacchiere politico internazionale, con particolare riferimento agli Stati Uniti. Questi ultimi, infatti, da sempre intrattengono con l’isola rapporti politici informali, garantendo al governo taiwanese – mai riconosciuto dalla RPC – aiuti economico-militari: in cambio, Washington trova in Taipei un prezioso alleato nella competizione internazionale con la superpotenza cinese. Tuttavia, i dazi voluti da Donald Trump hanno colpito duramente anche Taiwan, che si è vista aumentare le tariffe commerciali al 32%, incrinando così i delicati equilibri geopolitici fra i due Paesi. Il presidente taiwanese Lai ha però dichiarato – forse per preservare i rapporti di amicizia con gli States in un momento così difficile – che non darà il via a controdazi o a tariffe di ritorsione, e anzi, in un messaggio video ha annunciato l’istituzione di un team per i negoziati con gli USA al fine di rimuovere integralmente le barriere commerciali con il mercato stelle e strisce.