Un’altra “bomba” esplode nel Sud-est asiatico, sempre per opera della Corea del Nord. Stavolta non si tratta di un missile, come quelli lanciati il 6 marzo verso il Mar del Giappone. Ma di un clamoroso provvedimento del governo di Pyongyang. Il ministro degli Esteri ha comunicato che i cittadini della Malesia dovranno rimanere in Corea del Nord finché non sarà risolta «in modo imparziale» la vicenda dell’omicidio di Kim Jong-Nam, il fratellastro del dittatore nord coreano. La notizia arriva in un momento di forti tensioni che coinvolgono molti Stati asiatici: le due Coree, il Giappone e la Cina, che si scambiano minacce incrociate. E alla finestra ci sono gli Stati Uniti di Donald Trump, in attesa di capire come muoversi in uno scenario sempre più complesso.
Scontri – La tensione tra Nord Corea e Malesia è altissima dal 13 febbraio scorso, quando Kim Jong-Nam, fratellastro del dittatore Kim Jong-Un, è stato ucciso all’aeroporto malese di Kuala Lumpur. Una vicenda intricata, e non priva di risvolti economici. Le autorità malesi hanno ipotizzato che dietro l’omicidio ci fossero i servizi segreti nordcoreani: Kim Jong-Nam viveva da tempo in esilio e non era ben visto in patria. Ma il governo di Pyongyang ha smentito la ricostruzione, accusando gli investigatori locali. Nei giorni scorsi, Malesia e Corea del Nord avevano espulso i reciproci ambasciatori. Ora lo scontro fra i due Paesi compie un salto di qualità. Dopo la comunicazione della Nord Corea, il premier malese Najib Razak ha dichiarato in una nota che i cittadini malesi in Nord Corea sono «ostaggi», e ne ha chiesto l’«immediato rilascio». Nel frattempo, anche i cittadini nordcoreani residenti in Malesia non potranno lasciare il Paese. Razak ha convocato d’urgenza il Consiglio di sicurezza nazionale, che si riunirà nelle prossime ore: «Proteggere i nostri cittadini è la mia priorità e non esiteremo a prendere tutte le misure necessarie in caso di minaccia», ha concluso il premier malese.
Mar del Giappone – Il blocco dei cittadini malesi segue i quattro missili lanciati il 6 marzo dalla Corea del Nord: tre di questi sono caduti nel Mar del Giappone. L’ennesima provocazione militare, che ha innescato una serie di reazioni. Giappone e Corea del Sud hanno condannato il test, mentre Donald Trump (che in campagna elettorale si era detto disposto a incontrare Kim Jong-Un) ha dichiarato che il lancio di missili è «una seria minaccia» e «una chiara violazione» delle risoluzioni Onu. Per il governo nordcoreano, l’operazione è stata una risposta alle esercitazioni navali congiunte di Stati Uniti e Sud Corea. Ma il timore degli americani è che il test sia un ulteriore passo verso la preparazione di un missile intercontinentale con capacità nucleare. Nel discorso di fine 2016, infatti, Kim Jong-Un aveva annunciato che un nuovo, grande ordigno sarebbe «all’ultimo stadio della preparazione». Come riporta il Corriere della Sera, ogni esercitazione permette di raffinare la tecnologia dei lanciatori mobili e dei motori dei missili. Kim Jong-Un potrebbe avere a breve gli strumenti per ordinare un attacco contro l’area della Corea del Sud in grado di causare un milione di morti; o addirittura, potrebbe entrare in possesso di un lanciatore con sufficiente potenza per colpire il suolo americano.
Scudo – Dopo il lancio dei quattro missili, il Ministero della Difesa americano ha annunciato l’invio in Corea del Sud delle primi componenti di un sistema di protezione: il cosiddetto scudo “Thaad” (Terminal High-Altitude Area Defense) che dovrebbe neutralizzare le testate nordcoreane dirette verso il territorio di Seul. Ma ecco che sulla scacchiera interviene anche la Cina: un portavoce del ministero degli Esteri ha dichiarato che il governo cinese «si oppone fermamente» al progetto, e che Pechino «prenderà sicuramente le misure necessarie» per salvaguardare i propri interessi di sicurezza. «Tutte le conseguenze» ricadranno su Usa e Sud Corea, ha aggiunto. Uno scenario da Risiko, che però si svolge nel mondo reale. E la prossima settimana, il Segretario di Stato Usa Rex Tillerson dovrebbe volare in Asia per una serie di incontri: si parla anche di un appuntamento col Presidente cinese Xi Jinping per preparare la futura visita a Washington. In un momento del genere, la travagliata amministrazione Trump non può permettersi passi falsi.