Non ci sarà condanna a morte per il capitano del traghetto sudcoreano affondato lo scorso 14 aprile al largo della costa meridionale della Corea del sud. L’11 novembre la decisione della corte di Gwangju: Lee Jun-seok, 69 anni, non è colpevole di omicidio, l’accusa che l’avrebbe portato verso la pena capitale. Dovrà però scontare 36 anni di carcere per aver abbandonato la nave e i suoi 476 passeggeri, perlopiù studenti. Avrebbe soltanto contribuito, e non provocato, la morte delle 304 vittime.
Da parte sua, il capitano l’aveva detto: “Non merito di vivere per quello che ho fatto”. Ma forse la corte ha apprezzato anche la sua autocritica. Insieme a Lee sono stati condannati altri membri dell’equipaggio, proprio nel giorno in cui il governo sudcoreano ha deciso di sospendere le ricerche dei dispersi, durate sette mesi. Trent’anni vanno all’ingegnere capo, con l’accusa di non aver aiutato i colleghi feriti. Seguono altre tredici sentenze, che assegnano dai cinque ai trent’anni di carcere, per altrettanti responsabili, rei di abbandono di nave e violazione delle norma di sicurezza navale. I parenti delle vittime protestano: la reclusione non è abbastanza per aver ucciso più di 300 studenti. Non si sa ancora se i condannati richiederanno il rinvio al processo d’appello.
Michela Rovelli