La prima ministra della Scozia, Nicola Sturgeon, ha annunciato le proprie dimissioni dopo otto anni di governo. Si tratta, va detto subito, della manifestazione plastica di un fallimento: Sturgeon ha perso la battaglia per l’indipendenza del suo Paese dal Regno Unito, e il suo è un passo indietro anche dalla rincorsa di questo sogno, sotto la sua guida, probabilmente, destinato a rimanere tale.
Segnalato l’elefante nella cristalleria, le dimissioni della premier scozzese raccontano però qualcosa di più. Il riferimento è a quello squarcio nel cielo di carta che ha echeggiato ogni volta che le parole di addio della leader di Irvine hanno risuonato in assonanza con quelle dell’omologa neozelandese, Jacinda Ardern, come lei intenzionata a lasciare la politica, non prima di aver sollevato un velo di ipocrisia. Nelle parole di entrambe, la politica è brutale, stancante, violenta. Stare a lungo al potere danneggia i governati ed estenua i governanti. Che hanno il diritto di «gettare la spugna» per prendersi cura della propria salute mentale, senza passare per personaggi da compatire, che con inetta rassegnazione, hanno lasciato il posto a colleghi più prestanti di loro.
Niente di rivoluzionario, si dirà. Il clima tossico dei palazzi del potere è noto a tutti, e da tanto tempo. Vero. Eppure, i primi ministri di genere maschile hanno sempre mancato di denunciarlo. Probabilmente, perché troppo inebriati.