Ascoltare il Cremlino dirsi «preoccupato» per le sorti delle migliaia di profughi al confine tra Polonia e Bielorusssia, di cui Putin è autortevole sponsor, è solo l’ultimo dei paradossi che la crisi dei migranti bloccati lungo la frontiera polacca – limite orientale dell’Unione europea – sta portando a galla. In gioco c’è la stabilità della stessa Ue, che ora sta pagando il prezzo di una politica migratoria confusa e spesso discutibile. Non è la prima volta che un Paese autocratico – oggi è la Bielorussia di Lukashenko, ieri era la Turchia di Erdogan o la Libia delle autorità colluse con i trafficanti – utilizza vite umane e disperate per ricattare l’Unione e raggiungere i propri obiettivi, economici o politici che siano.

La zona calda – In ambito di flussi migratori, quella tra Bielorussia e Polonia è diventata una zona considerata altamente sensibile, ennesima porta di accesso all’Europa dopo la rotta balcanica e il Mediterraneo. Qui i migranti provenienti dal Medio Oriente, soprattutto iracheni e afghani, cercano di accedere al territorio comunitario, puntando soprattutto alla Germania. Da alcuni giorni però la situazione è precipitata, soprattutto nei pressi di Kuznica Bialotlocka, dove i profughi hanno preso d’assalto le barriere di filo spinato che tentano di limitare l’ingresso nel Paese. Varsavia, certo non nota per le sue politiche di accoglienza, ha risposto schierando 15 mila soldati lungo gli oltre 70 chilometri di boschi che da Kuznica salgono fino al confine baltico con la Turchia.

Le accuse a Minsk – Varsavia punta il dito contro il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Le fanno eco le vicine repubbliche baltiche e la stessa Unione Europea: secondo le accuse, il leader bielorusso – definito senza complimenti un «gangster» dal premier polacco Mateusz Morawiecki – sarebbe colpevole di aver attirato i migranti per poi spingerli verso Lituania e Polonia come ritorsione alle sanzioni imposte da Bruxelles per le ripetute violazioni dei diritti umani – ultimo il caso del giornalista arrestato dopo il dirottamente del volo Atene-Vilnius.

La linea europea – Questa volta l’Ue sembra non voler cedere ai ricatti di Lukashenko, anche se Bruxelles appare divisa sul da farsi. Prende piede l’ipotesi di alzare un muro lungo le frontiere esterne comunitarie – lo hanno chiesto in un appello all’Ue dodici governi tra cui Polonia e Lituania. Ma la presidente della commissione Ursula Von Der Leyen continua a dirsi contraria, mentre ad appoggiare l’idea non c’è solo il Partito Popolare Europeo, ma soprattutto il presidente del Consiglio Charles Michel.

I precedenti – La strategia di Lukashenko – forte del sostegno della Russia di Vladimir Putin – non dovrebbe però stupire le istituzioni europee. Sono state proprio queste a creare i precedenti per indurre un leader, certo non attento ai diritti umani com’è Lukashenko, a utilizzare i migranti come fossero armi. In fondo quello che sta facendo il presidente della Bielorussia non si discosta troppo dal piano con cui il leader turco Racep Tayyip Erdogan è riuscito a ottenere sei miliardi di euro per la custodia e la gestione di due milioni di profughi siriani. Non solo, in più occasioni Ankara non si è fatta scrupoli a utilizzare i profughi come pedine da muovere a suo piacimento sullo scacchiere degli interessi politici, come quando in ritorsione al mancato appoggio dell’Ue nelle tensioni scoppiate nella provincia siriana di Idlib decise di aprire le frontiere esterne turche. Le migliaia di migranti presenti in Turchia, desiderosi, proprio come i profughi accampati oggi nei boschi lungo il confine bielorusso di raggiungere l’Europa, si riversarono in Grecia, mettendo il governo di Atene in forte difficoltà.

La Libia – Si discute da anni sulla decisione di lasciare in mano alle autorità libiche la gestione dei flussi migratori che dalle coste del Paese vogliono raggiungere l’ambita Europa. Sono noti infatti i rapporti di questi con i trafficanti, così come le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i migranti in “campi profughi”  che sono in realtà lager a tutti gli effetti. Eppure, nonostante ciò, l’Italia continua a sostenere economicamente l’addestramento della guardia costiera libica: l’ultimo finanziamento, approvato dal Parlamento la scorsa estate, prevedeva una somma record di 10,5 milioni di euro.