L’ultimo, in ordine di tempo, è stato Jeff Bezos. Il fondatore e Ceo di Amazon in un’e-mail fatta circolare a tutto il personale dell’azienda ha sconfessato i fondamenti del “Muslim Ban” deciso da Donald Trump e annunciato l’esplorazione di ogni opzione legislativa. Ma da Google a Facebook, passando per Twitter, Linkedin e Microsoft, non c’è colosso della tecnologia che non sia sceso in campo nelle ultime ore contro l’ordine esecutivo firmato dal neo-presidente americano.

Motivazioni. Difficile dire se tra i dirigenti delle grandi aziende della Silicon Valley – dove quasi la metà dei lavoratori è di origine straniera secondo i dati del Silicon Valley Index – siano intercorse telefonate e contatti espliciti, o se la marea sia montata naturalmente. Impossibile, poi, definire quanto stia giocando nelle prese di posizione di queste ore l’attaccamento ai valori americani e quanto la volontà di schierarsi dalla parte della schiacciante maggioranza di cittadini, e consumatori, di tutto il mondo scioccati dall’ordine di chiusura delle frontiere deciso da Trump ai danni dei cittadini di sette Paesi di fede islamica oltre che di tutti i rifugiati. Quel che è certo è che l’indignazione è giunta ai piani alti dei colossi della sharing economy, che l’hanno rilanciata con rara asprezza contro la Casa Bianca.

Immigrati hi tech. Un altro Jeff, l’ad di Linkedin Weiner, ha aperto le danze ricordando su Twitter che il 40 per cento delle prime cinquecento aziende d’America è stato fondato da immigrati di prima o seconda generazione. Una considerazione simile a quella condivisa da Tim Cook: il boss di Cupertino ha detto chiaramente che Apple “non esisterebbe senza l’immigrazione”, considerato che il mitico Steve Jobs era figlio di un immigrato siriano.

Proteste. Di origine straniera è senza ombra di dubbio anche Sergey Brin, il co-fondatore di Google e presidente di Alphabet nato a Mosca da una famiglia ebraica. Seppur «a titolo personale», Brin era all’aeroporto di San Francisco domenica insieme a centinaia di altri manifestanti per protestare contro il ban presidenziale, in solidarietà con i rifugiati. Ma la contrarietà dell’azienda di Mountain View è stata espressa anche in via formale tramite una nota ufficiale dell’azienda preoccupata per l’impatto dell’ordine sui dipendenti di Google, il cui ad, Sundar Pichai, è nato e cresciuto in India.

Il co-fondatore di Google Sergey Brin all'aeroporto di San Francisco

Il co-fondatore di Google Sergey Brin all’aeroporto di San Francisco

Reazioni. Non hanno tardato ad arrivare le reazioni anche dei due più grandi social network del mondo, Twitter e Facebook. Per Marc Zuckerberg, sulle cui velleità politiche sono circolate nelle scorse settimane voci insistenti smentite dall’interessato, «gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati, e dovremmo essere fieri di questo». Già durante la campagna elettorale, pur senza mai nominarlo, il Ceo di Facebook si era espresso contro la politica oltranzista di Trump. Perfino più netto Jack Dorsey, fondatore e ad di Twitter, che ha scritto sulla sua piattaforma che l’impatto umanitario ed economico dell’ordine del neo-presidente è «reale e sconvolgente». Microsoft, infine, per bocca del suo presidente Brad Smit, ha chiarito che le leggi sull’immigrazione dovrebbero proteggere i cittadini senza sacrificare la libertà di espressione o di religione delle persone.

Dalle parole ai fatti. Le prese di posizione delle grandi aziende della tecnologia e della comunicazione americane arrivano dopo la «discesa in campo» di altre multinazionali made in Usa del calibro di Starbucks ed Airbnb. La società proprietaria delle caffetterie di maggior successo al mondo è passata dalle parole ai fatti, annunciando di voler rispondere alla provocazione di Trump assumendo 10.000 rifugiati in tutto il mondo nei prossimi cinque anni. Quanto ad Airbnb, l’amministratore delegato dell’azienda Brian Chesky ha dichiarato che la piattaforma metterà a disposizione “tre milioni di case” per offrire alloggio ai rifugiati e a chiunque abbia bisogno dopo essersi visto negare l’ingresso negli Stati Uniti. Perfino la casa d’abbigliamento sportiva Nike s’è fatta sentire, per bocca dell’ad Mark Parker, per denunciare che i suoi valori sono minacciati dal recente decreto, facendo riferimento al «potere della diversità». Fatta salva qualche rara presa di distanza o distinguo – come da parte del Ceo di Uber, vicino a Trump – è ora guerra aperta tra le grandi multinazionali americane ed il neo-presidente, per lo meno sulla questione dell’apertura a rifugiati ed immigrati.