Fuori dell’aula del tribunale di Buenos Aires, i parenti stringono in mano le foto delle vittime

In strada, fuori dal tribunale di Buenos Aires, c’è una folla. Ci sono i cittadini, i difensori dei diritti umani. Ci sono le Madri di plaza de Mayo, con il fazzoletto bianco che copre i capelli. In mano stringono cartelli: «Digan dònde estàn», «Son 30.000». Mostrano le foto dei desaparecidos, i volti degli scomparsi. Aspettano il verdetto del maxiprocesso sui crimini della dittatura di Videla, trasmesso su uno schermo posizionato sul marciapiede. Dentro l’aula, i familiari. E gli accusati. «Prison perpetua», dichiara il giudice. Ergastolo. La condanna è accolta da applausi, abbracci, lacrime.

La decisione arriva dopo cinque anni di udienze in quella che è una delle attese più lunghe del paese. Arriva dopo avere ascoltato oltre ottocento testimonianze dei sopravvissuti. E’ il  principale processo che ha preso in carico le condanne, le torture e gli omicidi consumati all’interno della Escuela de Mecanica de la Armada (Esma), la scuola tecnica della marina di Baires dove negli anni del regime, tra il 1976 e il 1983, furono rinchiusi oltre 5000 prigionieri politici. La maggior parte di loro non è più uscita da quelle stanze. Durante l’epoca Kirchner, la scuola è diventata il Museo della Memoria, finanziata dal governo e affidata alla gestione di organizzazioni umanitarie. Dentro, ora ci sono i fiori. Li hanno sistemati durante la notte le mani di chi aspettava la fine del processo e non poteva chiudere occhio. I fiori sono ovunque. Nella caffetteria, dove venivano ammassati gli oppositori tra una sessione di torture e l’altra. E nell’infermeria, dove i detenuti erano drogati con il pentotal prima di essere messi sui vuelos de la muerte, il sistema con cui i prigionieri venivano narcotizzati e buttati da un aereo, ancora vivi, nel Rio de La Plata.

Le condanne – Il Tribunale federale numero cinque di Buenos Aires ha pronunciato una sentenza implacabile. Su 54 imputati, 29 sono stati condannati all’ergastolo e 19 hanno ricevuto una pena di minore durata. Tra loro c’è anche Alfredo Astiz. Negli anni della dittatura lo chiamavano «L’angelo biondo della morte». Capitano della marina militare, era a capo dei grupo de tareas, gruppi armati incaricati di sequestrare, torturare, uccidere e fare sparire chi si opponeva. Aveva l’incarico di infiltrarsi nelle organizzazioni antagoniste: era diventato un amico intimo delle madri, pregava con loro nella chiesa di Santa Cruz. Con il nome falso di Gustavo sosteneva di essere familiare di una vittima. Così ha organizzato il rapimento di Azucena Villaflor e delle due suore francesi, Alice Domon e Leonie Duquet, gettate nel Rio de la Plata. Astiz abbracciava davanti alla Chiesa quelli che dovevano essere sequestrati per segnalarli ai complici. Al verdetto ha assistito impassibile, ribadendo le parole che ha sempre ripetuto davanti ai giudici: «Non chiederò mai perdono per avere difeso la patria».

I conti con la memoria – Nel 2003 è stato il presidente Néstor Kirchner ha decidere l’abrogazione delle leggi di amnistia e indulto, atto che ha permesso al paese di non dimenticare il suo recente passato. Ora 449 ex aguzzini sono in carcere, altri 553 agli arresti domiciliari. Sono 420 i processi ancora aperti nei tribunali. Ma le ultime condanne hanno una valenza simbolica perché nella Esma sono stati assassinati alcuni dei principali oppositori politici del regime. Come Rodolfo Walsh, giornalista e scrittore. E Azucena Villaflor, la fondatrice delle Madri di plaza de Mayo, torturata e poi gettata ancora viva nel Rio de la Plata.