Tunisia, Egitto e Libia faticano a ripartire dopo le rivoluzioni del 2011, mentre in Siria continua la guerra civile

Tunisia, Egitto e Libia faticano a ripartire dopo le Primavere del 2011, mentre in Siria continua la guerra civile e i rifugiati sono quasi 3 milioni

Si sono liberate dalle dittature, ma a due anni di distanza dallo scoppio della rivoluzione faticano a ritrovare il loro equilibrio politico. Tunisia, Egitto e Libia – le terre della Primavera Araba – si avvicinano al 2014 cariche di speranze e di paure. Tutti i tiranni (Ben Ali, Mubarak e Gheddafi, con l’eccezione del siriano Assad) sono stati rimossi, oppure uccisi. Ma il percorso di rinascita che si snoda nei singoli Paesi è ancora incompiuto, e le neonate istituzioni lontane dalla meta di una nuova stabilità.

TUNISIA Il 17 dicembre 2011 Mohamed Bouazizi, fruttivendolo tunisino di 26 anni, si dava fuoco davanti alle autorità di Sidi Bouzid, per protestare contro le minacce e la corruzione della polizia che poco prima aveva sequestrato il suo carretto. Il suo gesto scatenava la rivolta nel Paese, retto dispoticamente dal 1987 dal presidente Ben Ali. Due anni dopo, una Tunisia affaticata dalla transizione si rifiuta di celebrare in modo ufficiale la ricorrenza della rivoluzione. Il presidente Marzouki ha chiesto all’Assemblea nazionale costituente di accelerare la ratifica della nuova Costituzione. L’obiettivo è quello di approvarla entro il 14 gennaio 2014, anniversario della fuga di Ben Ali. Dopo la ratifica della Costituzione, il nuovo governo dovrà convocare le elezioni per mettere fine alla crisi esplosa un anno fa, con gli omicidi di due oppositori e le proteste contro il partito islamico Ennahda, alla guida del governo da ottobre 2011. Incombe la crisi economica, il Paese non ha molto tempo a disposizione per ripartire. Nel 2010 la disoccupazione era al 13%, oggi è al 16% e la povertà intorno al 25%. A giugno il Fondo Monetario Internazionale ha concesso alla Tunisia un prestito di quasi 2 miliardi di dollari, e in cambio pretende riforme urgenti.

EGITTO L’Egitto attende il 14 gennaio 2014, quando sarà chiamato a pronunciarsi con un referendum sulla Costituzione scritta dal governo provvisorio, guidato da Adly Mansour. A quel punto, nel giro di sei mesi, occorrerà indire le elezioni parlamentari e quelle presidenziali. La nuova Costituzione sostituisce quella di derivazione islamista approvata un anno fa dal governo dei Fratelli Musulmani, tra le proteste della piazza laica e dei partiti di sinistra. In un anno la situazione si è ribaltata: l’ex presidente Morsi è stato deposto e arrestato, i Fratelli Musulmani – usciti vittoriosi dalle urne – sono stati messi al bando. L’esercito ha preso in mano la transizione, ritagliandosi uno spazio che allarma i liberali. Possibile la presidenza di Al-Sisi, attuale capo delle forze armate. Ma in questo modo l’ombra dei generali sembra allungarsi di nuovo sull’Egitto.

SIRIA La rivolta contro il dittatore Bashar Assad è iniziata nel marzo 2011 ed è rimasta pacifica fino all’inizio del 2012. Poi si è trasformata gradualmente in una feroce guerra civile. I morti hanno superato quota 120 mila e i profughi sono in aumento. Secondo l’Onu, i rifugiati nei paesi vicini (Libano, Giordania, Turchia) sono già 2 milioni e 900 mila. Le speranze si concentrano nella conferenza di pace Ginevra II, fissata a gennaio. La comunità internazionale ci fa affidamento, dopo l’accordo raggiunto tra Usa e Russia per il disarmo chimico di Assad. In realtà la situazione sul terreno appare ancora molto intricata. I Paesi del Golfo, e in parte anche l’Occidente, sostengono i ribelli quanto Iran e Russia sostengono Assad, in uno scontro che ormai si è trasformato in un muro contro muro, in cui Damasco tenta di accreditarsi come un baluardo della stabilità contro l’avanzata dei fondamentalisti.

LIBIA La Libia sembra alle prese con una sorta di maledizione post-Gheddafi: la frammentazione in bande armate di un Paese svuotato dal Colonnello da qualsiasi forma di istituzione, partito politico, organizzazione sociale. Dopo la caduta di Gheddafi, resa possibile dall’intervento Nato che è mancato nel caso della Siria, la Libia è stata governata da un Consiglio di transizione nazionale che raggruppava tutte le opposizioni. Il Parlamento ha nominato premier Ali Zeidan, ma il suo governo si è dimostrato da subito debole. Incapace di controllare un Paese diviso tra circa 140 tribù e milizie rivali che, ad eccezione di pochi casi, non hanno riconsegnato le armi a rivoluzione finita, ma sono rimaste a presidiare il proprio territorio e le proprie richieste di autonomia. La Libia è l’unico paese della Primavera araba in cui gli islamisti non hanno stravinto alle prime elezioni post dittatura. Tuttavia, nonostante sia un Paese molto ricco e poco popolato, l’assenza di sicurezza sta minando la sua ripartenza. Nel 2012 a Bengasi è stato ucciso l’ambasciatore Usa Christopher Stevens, mentre tra il 9 il 10 ottobre scorsi il capo del governo Ali Zeidan è stato vittima di un rapimento lampo da parte di una milizia armata. L’eredità più pesante della guerra contro Gheddafi è proprio questa,  i depositi di armi sparsi nelle città e nel deserto, distribuite tra le milizie locali e tra i gruppi estremisti sparsi in tutta l’Africa settentrionale. La sfida, per il neonato Stato libico, è conquistare democraticamente il monopolio della forza.

Davide Gangale e Silvia Sciorilli Borrelli