Un’altra sentenza, un’altra ferita. Ieri, 22 novembre, il Tribunale del Cairo ha rinnovato per la terza volta la detenzione di Patrick Zaki, studente egiziano arrestato lo scorso 7 febbraio nella capitale nordafricana. È passato quasi un anno da quel giorno. Tornato da Bologna, città in cui studiava nell’ambito del progetto Erasmus Mundus, il 28enne era stato fermato con l’accusa di aver diffuso informazioni dannose per lo Stato. Annunciata il 7 novembre, la quarta udienza si è svolta davanti la Corte d’Assise del Cairo. È stata una sua legale, Hoda Nasrallah, a riferire l’esito ai giornalisti, senza però precisare quale sarà il giorno della prossima udienza. Il clima è ancora teso, lo conferma la recente notizia dell’arresto di tre membri della Ong Eipr – Egyptian Initiative for Personal Rights -, organizzazione per cui lavorava lo stesso Zaki.

Le accuse – Dieci mesi possono essere lunghi, tanto più se vissuti in carcere. Ma secondo l’accusa, i dieci post “eversivi” pubblicati da un presunto profilo di Zaki su Facebook meritano questa pena. I reati di cui è accusato sono diffusione di notizie false attraverso i social media, istigazione alla protesta, sovvertimento del sistema politico vigente e della sicurezza nazionale.  Nell’Egitto di Al-Sisi, queste azioni sono punibili anche con la pena di morte. Tuttavia, di fronte a questa mole di imputazioni, il giovane egiziano, ricercatore dell’ateneo bolognese impegnato negli studi di genere, ha sempre negato l’autenticità del profilo social. Le parole di Zaki hanno convinto la comunità internazionale – fin da subito vicina al giovane ricercatore – ma non sono bastate al giudice.

La risposta italiana – La vicenda, che dura ormai da molti mesi, ha messo in evidenza la difficoltà incontrata dal Governo italiano nella gestione dei rapporti sul tema della Giustizia con l’Egitto. Non sono mancati i paragoni con il caso di Giulio Regeni, dottorando italiano all’Università di Cambridge, torturato e ucciso tra gennaio e febbraio 2016 alla periferia del Cairo. Le similitudini riguardano le inadempienze del regime egiziano, poco collaborativo nelle operazioni di indagine, il coinvolgimento dei servizi segreti, le torture come pratica per ottenere risposte. Sullo sfondo crescono le polemiche relative agli interessi economici italiani in nordafrica. Secondo Emanuele Russo, presidente di Amnesty International Italia, “il 2019 attesta una conferma dell’Egitto come destinatario principale dell’export di materiali di armamento con 871,7 milioni di euro e come secondo partner il Turkmenistan”.