A quasi un anno dalla caduta di Mubarak e dall’insediamento di Morsi, l’Egitto è ancora in un vortice di tensioni e violenze. Va avanti da giorni, senza sosta, la guerriglia scoppiata per protesta contro la condanna a morte di 21 tifosi della squadra dell’Al-Masri per la strage allo stadio di Port Said del febbraio 2012. In risposta ai disordini, il presidente Morsi aveva proclamato lo stato di emergenza per trenta giorni nelle città di Port Said, Suez e Ismailia.

Nella notte del 29 gennaio, sono rimaste uccise due persone a seguito degli scontri scoppiati a Port Said. Migliaia i manifestanti che hanno partecipato ai funerali delle due vittime: “Abbasso il regime” e “Morsi hai ucciso i nostri figli” sono gli slogan più gridati.

Le violenze sono talmente accentuate che il ministro della Difesa e capo delle forze armate egiziane, Abdel Fatah el Sisi, prefigura un forte rischio di stabilità, se non dovessero arrestarsi. “Una questione grave – ha sostenuto el Sisi -che rischia di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale e l’avvenire dello Stato. La prosecuzione del conflitto e delle divergenze tra le diverse forze politiche sulla gestione del paese porterà all’affossamento dello Stato e minaccia l’avvenire delle prossime generazioni”.

El Sisi ha spiegato che il dispiegamento delle forze armate egiziane a Port Said e a Suez è stato deciso “per difendere obiettivi strategici e vitali e per aiutare il ministero dell’Interno che svolge il suo ruolo con coraggio e onore”. Il ministro della Difesa ha poi auspicato la fine delle violenze, fermo restando il rispetto del diritto dei cittadini di manifestare.

Ancora dal Cairo, arriva la notizia della condanna a morte, decisa dalla Corte d’assise della capitale egiziana, dei sette cittadini egiziani copti, residenti negli Stati Uniti, che avevano prodotto il film antimusulmano “L’innocenza di Maometto”, fonte di accese proteste in tutto il mondo islamico.

Francesco Paolo Giordano