Come siamo arrivati alle elezioni del 21 dicembre?
1 ottobre 2017. Referendum per l’indipendenza catalana. Dopo anni di fallimenti nei negoziati tra Barcellona e Madrid sullo Statuto Autonomico della Catalogna, il Parlamento Catalano indice un referendum per chiedere agli abitanti della regione se vogliono l’indipendenza dalla Spagna. E’ un referendum illegale – la Costituzione spagnola del 1978 non prevede in alcun modo che un territorio si stacchi dalla madrepatria – ma si celebra lo stesso. Occupando i seggi e procurandosi le urne elettorali dall’estero, i promotori del referendum organizzano il voto. Nonostante l’ordine di impedire il referendum – una farsa secondo Rajoy -, l’1 ottobre più di due milioni di catalani vanno a votare. Il 90% dice sì all’indipendenza. Sono tanti, ma sono solo il 43% della popolazione catalana.
10 ottobre 2017. Dichiarazione d’indipendenza a metà. Trascorsi alcuni giorni dal voto, il Presidente della Generalitat Carles Puigdemont fa una dichiarazione di indipendenza e ne congela – contemporaneamente – gli effetti. Propone al parlamento di «sospendere gli effetti della dichiarazione di indipendenza per intraprendere un dialogo» con Madrid. Il governo respinge ogni ipotesi di concessione di indipendenza e chiede a Barcellona di chiarire se ha dichiarato l’indipendenza oppure no. In caso affermativo – fa sapere il governo – scatterebbe (il finora mai usato) articolo 155 della Costituzione: il commissariamento della Catalogna.
27 ottobre. Nasce (e muore) la Repubblica Catalana. Fallito ogni tentativo di dialogo tra Madrid e Barcellona, il Parlamento catalano vota una risoluzione per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Le opposizioni (Ciudadanos, Psoe, PP) si rifiutano di prendere parte a questa votazione anti-costituzionale. A larga maggioranza (dei votanti) lo stesso parlamento approva la nascita della Repubblica Catalana:«Noi, rappresentanti del popolo catalano, nel libero esercizio del diritto di autodeterminazione e in accordo con il mandato della cittadinanza della Catalogna, costituiamo la Repubblica Catalana come stato indipendente e sovrano di diritto, democratico e sociale». È con queste parole che Carme Forcadell, la presidenta della Assemblea Nazionale Catalana, annuncia al mondo la nascita della Repubblica Catalana.
Le conseguenze – La reazione di Madrid non si fa aspettare. Scatta immediatamente l’articolo 155: parlamento e governo catalano sono sciolti e si indicono nuove elezioni, fissate per il 21 dicembre. I responsabili politici della dichiarazione d’indipendenza, poi, devono rispondere di fronte al Tribunale Costituzionale dei reati di sedizione, malversazione e ribellione. Alcuni finiscono in prigione: tra loro Oriol Junqueras, il leader della Esquerra Republicana de Catalunya (il partito della sinistra indipendentista più votato) e Jordi Sánchez, il numero due del partito di Puigdemont. Quest’ultimo, invece, sceglie l’esilio: nonostante il gelo politico di Bruxelles, infatti, Puigdemont decide di rifugiarsi lì e di aspettare la prossima mossa di Madrid.
Indipendentisti contro Sovranisti – Il rapporto tra Madrid e Barcellona non è mai stato dei più cordiali. Dopo gli slanci progressisti della Seconda Repubblica Spagnola negli anni ’30 del Novecento (e un tentativo di dichiarazione di indipendenza catalana finito malissimo, nel 1934), la dittatura di Francisco Franco (1939 – 1975) stronca con la forza ogni devianza autonomista. Parlare in catalano è punibile con il carcere e ogni tentativo di opposizione è represso con il pugno di ferro dal Caudillo. Con il ritorno alla democrazia, però, le forze catalane indipendentiste cominciano a ricostituirsi. Nel 2015, la svolta inattesa: il Parlamento catalano è governato da una maggioranza indipendentista.
A correre nelle elezioni politiche di dicembre, dunque, ci sono stati due blocchi fortemente polarizzati. Da un lato i partiti indipendentisti duri e puri: la Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) di Junqueras, Junts per Catalunya (JxCat) di Puigdemont e la CUP – Candidatura de Unidad Popular, partito di estrema sinistra che rivendica la indipendenza per tutti i “Paesi Catalani” (Catalogna, Comunità Valenciana e Baleari). Dall’altro il blocco sovranista, determinato a difendere l’unità del territorio spagnolo sancita dalla costituzione: Ciutadans (Cs) – formazione di centro destra che sta rubando molti voti al PP – è il partito che ha preso più voti confermando le aspettative della vigilia. Poi c’è il Partit Socialista de Catalunya (PSC) di Miquel Iceta e, infine, il Partido Popular (PP), che ha espresso il governo di Madrid e il suo premier Mariano Rajoi ma è poco votato in Catalogna. A decidere le sorti della maggioranza politica è quindi Catalunya en Comù (CeC), il partito della Sindaca di Barcellona, Ada Colau. Versione catalana di Podemos, CeC ha una posizione ambigua sul procés dell’indipendenza: ricettiva con le istanze degli indipendentisti ma contraria al divorzio da Madrid.
Lo spettro dell’incertezza – Anche dopo il voto, sul destino della Catalogna continuano a pesare tutte le incognite che il processo indipendentista ha innescato. E’ difficile prevedere quale formazione politica riuscirà a formare un governo: gli indipendentisti potrebbero farcela. Ma nel complesso resta assai concreta l’iptesi della ingovernabilità.
La questione economica – Con più di 3000 imprese che hanno già spostato la loro sede dalla Catalogna, l’incertezza politica potrebbe aggravare – o, almeno, non fermare – l’emorragia di capitali in fuga dalla Catalogna. Con un pil procapite simile a quello della Norvegia e un contributo erariale verso lo stato centrale senza eguali, Barcellona è la gallina dalle uova d’oro della Spagna (la Padania iberica, secondo alcuni). Più progressista e più efficiente rispetto al resto del paese, la Catalogna, forse, non avrebbe impugnato la causa dell’indipendentismo fino alle sue estreme conseguenze – la secessione – se avesse ottenuto una autonomia fiscale da Madrid più generosa di quella negoziata negli anni. Ma se lo scenario di un distacco dalla madrepatria appare sempre più inverosimile, è assai probabile che con la rinegoziazione dei rapporti tra Catalogna e governo dopo il 21 dicembre ci saranno, al primo punto, le questioni economiche.