Russi in Madagascar. Non è il titolo di un film, ma il cuore di un’inchiesta uscita in esclusiva sul New York Times. L’operazione, che sarebbe stata approvata lo scorso anno dal presidente Vladimir Putin in persona, è stata coordinata dai suoi esperti in “collaborazioni politiche”. Le stesse persone, insomma, che sul curriculum potrebbero già vantare, secondo le inchieste giudiziarie avviate negli Stati Uniti, anche la gestione delle fake news nelle presidenziali americane del 2016.

Andry Nirina Rajoelina,  presidente del Madagascar dal 19 gennaio 2019

Il candidato sbagliato – Gli uomini russi sono arrivati meno di un anno fa sull’isola, la più grande del continente africano, con zaini pieni di contanti e cartelloni con il nome dell’allora presidente del Paese Hery Rajaonarimampianina. Tra loro, Yevgeny Prigozhin, fedelissimo dello zar e già incriminato negli Stati Uniti come corresponsabile nelle infiltrazioni delle elezioni alla Casa Bianca (la cosiddetta “fabbrica dei troll”). Il principale motivo dell’aiuto fornito all’ex numero uno malgascio sarebbe la protezione di un forte investimento fatto da una compagnia russa – controllata da Prigozhin – in una delle principali compagnie statali che gestisce le miniere di cromo. Il cromo è tra gli export più importanti del Madagascar in virtù del suo utilizzo nella produzione di acciaio inossidabile. I russi avrebbero offerto a quello che era il responsabile dell’accordo – il presidente Rajaonarimampianina – un supporto non solo economico: hanno prodotto un giornale in lingua locale (pieno di errori ortografici) per sostenere la sua corsa alla ricandidatura e assunto studenti e giornalisti per anticipare una seconda vittoria del capo di Stato. Peccato che il candidato non fosse così vicino alla vittoria: così i russi hanno deciso di cambiare scelta a metà corsa e optare per quello che si è rivelato il vincitore, l’ex dj Andry Rajoelina. Nulla è andato perduto: le quote sono passate al nuovo presidente, che ha tenuto in piedi l’accordo.

Il summit e forum economico Russia—Africa tenutosi a Sochi durante il 23 e 24 October 2019

Interesse economico – L’isola malgascia non è che l’ultimo tassello del progetto russo di infiltrazione nel continente nero. Territorio chiave già nella guerra fredda e oggi teatro di forti interessi cinesi, l’Africa promette investimenti profittevoli nel terzo millennio: anche per questo Putin ha tenuto un summit Russia-Africa a Sochi, sul Mar Nero, lo scorso ottobre. Hanno risposto alla chiamata russa 43 leader (quasi un quarto dei votanti dell’Onu) capeggiati dal presidente di turno dell’Unione Africana, l’egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Pressioni, minacce, affari d’oro (soprattutto nel settore delle armi e delle materie prime): all’incontro dei capi di Stato non è mancato nulla. I russi hanno appoggiato le rivendicazioni contro il neocolonialismo, incluso il famigerato franco Cfa, incentivato l’industria con promesse sul nucleare e prospettato scambi commerciali per un volume di 40 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni (più del doppio di quello attuale, che si attesta sui 17 miliardi). Presente al summit anche Konstantin Maloveev, oligarca ultraconservatore al centro delle inchieste sul Russiagate (già sanzionato per il sostegno ai separatisti ucraini) e fresco fondatore dell’Agenzia internazionale di Sviluppo Sovrano: con questa promette di aiutare i governi africani a ottenere l’accesso ai finanziamenti come alternativa alle fonti occidentali (tra cui il Fondo Monetario Internazionale).

Interesse politico – Agli scambi commerciali si affianca anche una collaborazione militare, ufficiale e non. Secondo il Moscow Times la compagnia privata russa Wagner sarebbe attiva in Sudan, Libia (in supporto di Haftar), Repubblica Democratica del Congo, Angola, Mozambico e nelle due Guinee. Ufficialmente fornisce servizi di sicurezza in cambio di concessioni petrolifere e minerarie (arrivando a infastidire anche Daesh non senza conseguenze), senza connessioni con il governo russo. In realtà tra i suoi dirigenti c’è proprio quel Yevgeny Prigozhin ricomparso in Magadascar e prima – sempre in occasione delle elezioni – in Zimbabwe. Allo stesso uomo sarebbero anche riconducibili agglomerati di account falsi su Facebook e Instagram, disconnessi dalle piattaforme, che si esprimevano sulle elezioni americane e francesi con sponsorizzazioni ai post per oltre 70mila dollari e un bacino di lettori di oltre un milione e mezzo di persone.