La Spagna vede la sua quarta tornata elettorale in quattro anni, ma neanche stavolta esce una maggioranza di governo dalle urne. I risultati del weekend elettorale vedono il Partito socialista (Psoe) portare a casa il maggior numero di seggi del Congreso (120) avendo conquistato il 28% dei consensi. Una vittoria di misura che deve fare i conti con i popolari in crescita e con un exploit dell’ultradestra di Vox, che raddoppia i propri seggi diventando il terzo partito del Paese. I liberali di Ciudadanos subiscono un crollo storico che ha portato, stamattina, 11 novembre, alle dimissioni del presidente Albert Rivera.

I risultati delle urne – Con il 28% dei voti, il premier uscente Pedro Sanchez (Psoe) ha quasi replicato il risultato di aprile (28,7%) ma ha perso tre seggi, 120 contro 123. Alla sua sinistra, Unidos Podemos di Iglesias perde leggermente terreno rispetto ad aprile (35 seggi) ma meno del previsto, nonostante la scissione che ha portato ha creato Más Páis (MP), sovrastimato dai sondaggi. Il Partido popular (Pp) guidato dal giovane Pablo Casado torna sopra il 20% e guadagna più di 20 seggi, mentre i nazionalisti di Vox si consacrano come terza forza politica in Spagna, ottenendo il 15,1% e più che raddoppiando i seggi alla Camera iberica (da 24 a 52). Nonostante il risultato positivo di PP e Vox, però, è impossibile una maggioranza di centrodestra: quasi tutto ciò che i due partiti hanno guadagnato è stato compensato dal crollo dei liberali di Ciudadanos, sotto il 7% e con soli 10 seggi.

Le reazioni dei partiti – «Il partito socialista ha vinto per la terza volta quest’anno le elezioni», ha detto Sanchez all’arrivo dei risultati definitivi. «Sanchez ha perso il suo referendum», è invece il parere del popolare Pablo Casado. «La palla è adesso nella sua metà del campo – incalza Casado – Deve decidere cosa vuole fare. Perché la Spagna non può più aspettare». Chi ha passato la serata dei risultati a festeggiare è sicuramente Vox. Dalla sede di Madrid del partito, il leader Santiago Abascal e il suo numero due Javier Ortega Smith hanno salutato la folla in un tripudio di bandiere spagnole. «Siamo la terza forza politica, con 52 deputati», esulta Abascal. «Siete stati protagonisti dell’impresa più rapida e folgorante della politica spagnola. Siamo riusciti ad aprire tutti i dibattiti proibiti», ha continuato. «Oggi si consolida un’alternativa patriottica e sociale che chiede l’unità della Spagna».

Crescono gli indipendentisti – Il crollo di Ciudadanos è stato visto anche come una vittoria delle istanze indipendentiste o autonomiste, su tutte quella catalana. Qualunque sarà la maggioranza del prossimo governo, dovrà fare i conti con i partiti che chiedono più distanza da Madrid. Il dimissionario Rivera è sempre stato tra i più intransigenti nei confronti delle spinte secessioniste di Barcellona. E ora si ritrova superato da Esquerra Republicana de Catalunya, il partito degli indipendentisti di sinistra, che diventa la quinta forza politica dentro il Congreso con 13 seggi, pur essendo radicata – si capisce da sé – solo in una regione. Il risultato è reso possibile dagli effetti della legge elettorale che premia i partiti regionalisti con un sistema proporzionale puro con collegi piccoli: entreranno in Parlamento 16 sigle diverse, in gran parte forze locali per rappresentare le varie identità della Spagna, dalla Galizia alla Navarra, dai Paesi baschi alla provincia di Teruel.

I possibili scenari dopo le elezioni – Per creare un governo che stia in piedi sulle sue gambe bisogna superare i 176 seggi al Congreso. Quali partiti ci riusciranno non è ancora chiaro. Sembra improbabile una “grande coalizione” Psoe-Pp: i partiti spagnoli sono poco inclini a formare coalizioni post-elettorali e i precedenti storici escludono questa possibilità. Entrambi i possibili accorpamenti post-voto, sia quello di sinistra (Psoe-Up-Mp) che quello di destra (Pp-Vox-Cs), non arriverebbero nemmeno a 160 seggi. Se non si arriva alla fatidica soglia dei 176 seggi, però, la Spagna non è condannata a votare per la quinta volta in quattro anni: conclusa la prima votazione con un nulla di fatto, al premier incaricato basta avere più voti a favore che contro nella seconda. Fondamentali sono quindi le “astensioni strategiche”: nel 2016, proprio grazie a numerose astensioni (68), il governo Rajoy poté insediarsi nonostante i voti favorevoli (Pp e Cs) si fermassero a 170. In teoria potrebbe ripetersi lo stesso scenario a sinistra, se ci fosse un accordo Psoe-Up-Mp e le astensioni di tutti i partiti regionalisti. Ma mettere d’accordo Sanchez e Iglesias e ottenere l’astensione degli autonomisti non sarà affatto facile, come già si è visto. Per cercare di formare un governo, sarà decisivo il ruolo dei deputati delle forze regionaliste, primi tra tutti quegli indipendentisti catalani che hanno causato la rottura del primo governo Sanchez all’inizio di quest’anno.