Dal mondo dei telefilm alla realtà il passo potrebbe essere più breve del previsto. Da qualche settimana l’ipotesi di una convention “aperta” si fa strada in maniera sempre più minacciosa sulla corsa repubblicana alla Casa Bianca. Una situazione che ai fan di House of Cards ha subito ricordato un episodio della quarta stagione della serie, rilasciata con perfetto tempismo da Netflix lo scorso 4 marzo: è proprio nell’ambito di una brokered convention infatti che, grazie ai soliti intrighi, il Presidente Frank Underwood riesce a far nominare sua moglie Claire alla vice-presidenza. Non sappiamo se la convention repubblicana, in programma alla Quicken Loans Arena di Cleveland dal 18 al 21 luglio, sarà effettivamente contested ma la possibilità c’è. E ha già messo in subbuglio il mondo politico a stelle e strisce.

Donald John Trump, 70 anni a giugno, è davanti a tutti nella corsa alla nomination repubblicana. Ma la convention potrebbe riservargli sorprese amare...

Donald John Trump, 70 anni a giugno, è davanti a tutti nella corsa alla nomination repubblicana. Ma la convention potrebbe riservargli sorprese amare…

Partiamo dai numeri. I delegati del Gop a Cleveland saranno 2.472: ciò vuol dire che per essere certi della nomination Donald Trump e Ted Cruz dovranno raggiungere quota 1.237. Attualmente, stando al conto di Real Clear Politics, il magnate newyorkese ha dalla sua 743 delegati, il senatore del Texas 517. Il Governatore dell’Ohio John Kasich, fermo a 143, è già matematicamente tagliato fuori da questo traguardo ma proprio la sua permanenza nella corsa è vista da molti come una conferma del fatto che l’ipotesi di una brokered convention sia tutt’altro che fantascientifica: se non ci fosse questa speranza, non avrebbe nessun senso per Kasich proseguire la campagna. Con la prospettiva di una convention aperta, invece, rosicchiare qualche delegato ai due front-runner può contribuire a creare una situazione di stallo della quale – chissà – potrebbe beneficiare lui stesso. «A questo punto si tratta di uno spettro sempre più credibile – conferma Damiano Palano, che insegna Filosofia Politica alla Cattolica di Milano – anche perché è lo stesso partito ad auspicare questa situazione».

Già, perché in caso di mancato raggiungimento della fatidica quota, che l’autorevolissimo FiveThirtyEight considera molto probabile, si rimescolerebbero tutte le carte e Trump, visto da sempre come un corpo estraneo al Gop, potrebbe avere le ore contate. Ma andiamo con ordine: al primo scrutinio (quasi) tutti i delegati presenti sono tenuti a votare per il candidato con il quale sono stati eletti. Ciò vuol dire che anche i 171 di Marco Rubio, ritiratosi dalla corsa il 15 marzo, dovranno votare inizialmente per il senatore della Florida. A partire dal secondo scrutinio, però, scatterebbe il “liberi tutti”: ed ecco che l’abilità politica della campagna di Cruz da una parte e le mosse del partito dall’altra potrebbero spodestare Trump (che comunque la maggioranza, almeno relativa, dei delegati dovrebbe ottenerla) e far convergere la maggioranza o sul senatore di origini cubane o su un candidato “di consenso” esterno alla corsa ma in grado di unificare il partito. Il profilo perfetto in questo senso sembra essere quello dello Speaker della Camera, il 46enne del Wisconsin Paul Ryan, che però – fa notare Damiano – «si troverebbe a svolgere una campagna brevissima di pochi mesi».

Nel caso i delegati convergessero verso un candidato di consenso, il nome più gettonato è quello di Paul Ryan che nel 2012 corse come candidato vice-presidente in ticket con Mitt Romney

Nel caso i delegati convergessero verso un candidato di consenso, il nome più gettonato è quello di Paul Ryan che nel 2012 corse come candidato vice-presidente in ticket con Mitt Romney

Ma… ci sono molti “ma”. Innanzitutto, Donald Trump è dato per favorito nei sondaggi nella “sua” New York e in Pennsylvania. Due Stati molto popolosi e di conseguenza molto corposi dal punto di vista dei delegati in palio: un eventuale scorpacciata nel Nordest potrebbe compromettere i piani del Partito. In secondo luogo, una convention aperta che stravolga il voto popolare rischierebbe di partorire un candidato visto come espressione dell’establishment in un momento in cui il vento dell’antipolitica è più forte che mai, soprattutto tra i repubblicani. Per non parlare dell’eventualità, più volte ribadita da “The Donald”, di una sua candidatura da indipendente in caso di mancata nomination. Candidatura senza pretese ma con il solo intento di far naufragare il partito dell’elefantino. Infine, last but not least, bisogna tener conto della scaramanzia. L’ultima volta che una convention si trasformò nell’appendice delle primarie anziché nella consacrazione del candidato era il 1976: a prevalere sul futuro Presidente Ronald Reagan fu Gerald Ford, poi battuto dal democratico Jimmy Carter. Un precedente non troppo bene augurante.

Ciò che auspica l’establishment del partito, però, va ancora oltre: quella di quarant’anni fa fu una convention contested ma fino a un certo punto e Ford, cui mancavano pochi voti, ebbe gioco facile nell’ottenere la nomination. «Quello a cui pensano i notabili del partito – spiega Damiano – si avvicina più alle brokered convention dei primi decenni del Novecento: convention realmente combattute e dall’esito totalmente incerto». Può succedere di tutto, quindi ma, comunque vada a finire, il partito che fu di Reagan e dei Bush rischia di uscirne con le ossa rotte. A proposito di Bush, il fratello minore di George W., Jeb, dato tra i favoriti fino a un anno fa, il 23 marzo ha rotto gli indugi, decidendo di appoggiare ufficialmente Ted Cruz, nonostante sia Kasich il più vicino alle sue posizioni politiche. Una mossa che rende bene l’idea della crisi del Gop: «pur di fermare l’avanzata di “The Donald” – riflette Davide Borsani, ricercatore Ispi – un moderato come Bush è pronto ad appoggiare un ultraconservatore della destra evangelica come Cruz».

Figlio di immigrati cubani come Marco Rubio, il 45enne Ted Cruz potrebbe ribaltare il risultato delle primarie grazie all'appoggio di gran parte dei notabili del partito

Figlio di immigrati cubani come Marco Rubio, il 45enne Ted Cruz potrebbe ribaltare il risultato delle primarie grazie all’appoggio di gran parte dei notabili del partito

D’altronde i Repubblicani hanno sofferto più dei Democratici il montare del sentimento di anti-politica nel Paese. «A giudizio della base – continua Borsani – il partito non ha fatto abbastanza a Washington per frenare la politica economica di Obama, che ha aumentato i margini dell’intervento statale nel mondo del business». Non solo: «un’altra scossa di assestamento cui i Repubblicani non hanno ancora trovato risposta è quella demografica. Da un lato si mostrano diffidenti verso i mutamenti sociali, dall’altra non possono fare a meno di concedere aperture al giovane elettorato non bianco per captarne il voto». Un corto circuito che costituisce la chiave del successo di Trump: il suo elettore medio è bianco e ha più di 50 anni, il prototipo dell’americano arrabbiato di cui il magnate si è affrettato a prendere le difese.

Infine il Gop sconta un errore di calcolo imperdonabile: «per ostacolare le politiche democratiche, negli ultimi otto anni il partito ha alimentato posizioni radicali come quelle dei Tea Party – conclude Palano – pensando di poterle controllare agevolmente. Risultato: oggi, complice la disintermediazione in atto nella politica, si trova a fare i conti con due candidati “scomodi” che hanno spazzato via senza problemi i candidati mainstream». La convention di Cleveland rappresenta l’ultima spiaggia per un partito allo sbando. Altrimenti, si aprirà una prateria per la terza presidenza democratica consecutiva.

Matteo Furcas
Emiliano Mariotti