Al primo turno, il Front National ha superato la soglia del 20%. Per il partito è un risultato storico: in quindici anni ha ampliato di tre milioni di voti il proprio consenso alle presidenziali. «Una dinamica elettorale molto significativa, da non sottovalutare», dice Nicola Genga, ricercatore, direttore del C.R.S. – Archivio Ingrao e autore del saggio Il Front National. Da Jean-Marie a Marine Le Pen. «Questo risultato consolida una tendenza in atto da almeno tre anni, ma che finora si era manifestata in elezioni dette “di second’ordine”, meno importanti sul piano politico nazionale e dunque meno partecipate, dalle europee alle regionali, passando per le dipartimentali. Queste sono invece le elezioni principali nel calendario politico della Francia, per cui un risultato come quello di Marine Le Pen pesa doppiamente».

Fuori i socialisti di Hamon e la destra gollista-liberale di Fillon, che raccolgono poco più del 26% delle preferenze dei francesi. Per la prima volta dal 1958, nascita della Quinta Repubblica, al secondo turno delle presidenziali i due partiti storici del bipolarismo non ci saranno. Cosa indica questa assenza e cosa può dire del partito tradizionale?
Intanto i partiti francesi della Quinta repubblica sono sempre stati abbastanza leggeri e leaderistici. L’unica vera eccezione è stata ed è, per quel poco che rimane, il partito comunista. In generale però i partiti di quel paese tengono se riescono a fungere da cerniera centro-periferia, collegando le élite dell’alta funzione pubblica, uscite dall’Ena e dalle altre grandi scuole tecnocratiche, al notabilato politico locale, in nome delle ambizioni personali dei leader nazionali. La torsione personalistica introdotta nel sistema istituzionale attraverso il meccanismo dell’elezione diretta del presidente della repubblica ha cannibalizzato i partiti. Il dato di sistema è poi il logorio dei due grandi blocchi nell’ultimo quindicennio, cui si somma la crisi continentale del socialismo europeo. A gioco lungo non potevano che beneficiarne gli outsider.

Sulla distribuzione dei voti, il nord-est è quasi monocolore per Marine Le Pen. Il sud-ovest, invece, è assegnato a Macron, che è forte anche nelle grandi metropoli. Come si spiega questa distribuzione?
Le tradizioni politiche hanno un loro peso e una loro solidità. Né il voto di opinione né gli effetti di una crisi socio-economica, per quanto rovinosa e perdurante, possono spazzare via del tutto e facilmente reti di relazioni, sistemi di potere, consolidati equilibri di consenso costruiti nei decenni. L’est e le zone rurali sono sempre stati bastioni della destra, non solo di quella estrema. Nelle metropoli continua a pesare il voto della borghesia più o meno illuminata, l’humus cosmopolita, la tradizione social-comunista. Per citare alcuni dati, a Parigi Marine Le Pen è arrivata solo al 5 per cento, a Lille e a Lione è arrivata quarta, a Marsiglia seconda, superata da Mélenchon.

Come si potrebbe caratterizzare la campagna elettorale che precede il ballottaggio?
Sarà una campagna di delegittimazione reciproca e di concorrenza esasperata su alcuni temi. Ad esempio, chi sa proteggere meglio i cittadini, dal punto di vista economico e della sicurezza? Chi custodisce meglio il patriottismo repubblicano? Chi rappresenta l’essere francesi nella maniera più genuina e fedele alla sua storia millenaria? La ricerca di rassicurazione conduce a scadimenti nel generico. Gli slogan dei due candidati in vista del ballottaggio sono “Insieme, la Francia” (Macron) e “Scegliere la Francia” (Le Pen). Nei manifesti imperversa il blu, colore che secondo i pubblicitari risveglia nell’osservatore il senso di famiglia.

Macron ha affermato che già da oggi si dovrà pensare alle legislative di giugno. C’è il rischio che Macron, alla guida di un partito nato solo un anno fa, non riesca a ottenere una maggioranza parlamentare. Su questo fronte, quali potrebbero essere i possibili scenari?
Forse Macron sottovaluta la portata della sfida che lo attende. È nettamente favorito ma dovrebbe essere prudente. Molti hanno scritto, a ragione, che il suo discorso dopo il primo turno è stato troppo simile a quello di un vincitore. Ma la partita decisiva è ancora da giocare. Chirac nel 2002 riuscì a mobilitare l’intera società francese, sfruttando un sentire “antifascista” che era forte nella società, ma sollecitandolo a fondo e con impegno. Macron, di fronte a una candidata dal volto meno oscuro e compromesso di quello di suo padre, dovrebbe fare altrettanto. Inoltre, l’ex ministro dovrebbe sapere che un risultato inferiore al 60% per lui sarebbe un relativo insuccesso. Proprio perché il suo En Marche non è un vero partito la sua vittoria presidenziale deve essere la prova di forza che gli consenta di calamitare dirigenti ed elettori in uscita dai movimenti di centro e dalla casa socialista che crolla. È comunque improbabile che riesca da solo ad avere la maggioranza parlamentare, ma nel caso arrivasse all’Eliseo avrebbe la necessità di innescare una dinamica carismatica che incida sul riallineamento delle forze politiche, producendo equilibri a lui favorevoli nella nuova Assemblea nazionale.