Nello scontro tra Donald Trump e Kamala Harris la politica estera, grazie alle guerre in corso, ha ripreso un ruolo da protagonista come non accadeva da molte tornate elettorali. Conflitto Israele-Hamas, scontro in Ucraina, rapporti con Europa e Cina dividono i due candidati alle presidenziali e svelano le rispettive visioni del mondo. Seconda solo ai temi economici, la politica estera ha dominato i comizi dei due sfidanti e ha occupato un’ampia porzione anche nel dibattito televisivo del 10 settembre, l’unico faccia a faccia tra i due pretendenti. È evidente che il ruolo globale futuro degli Stati Uniti dipenderà in gran parte dall’evoluzione dei conflitti in Medio oriente e in Ucraina e che la loro credibilità internazionale sarà il risultato della postura assunta con l’alleato europeo e il rivale cinese.

Medioriente – L’aiuto allo Stato ebraico è una costante di fondo di tutte le amministrazione amaricane: democratici e repubblicani non hanno mai mancato di sostenere con armi e dollari i governi israeliani. Il consenso di Joe Biden ha particolarmente risentito dei tentativi di contenere l’aggressività del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Giudicati inefficaci e confusi da molti americani, i rimproveri del presidente uscente hanno indebolito anche la sua vice Kamala Harris che oggi prova a distanziarsene tenendo fermo il diritto di Israele a difendersi ma sottolineando la necessità di ridurre le vittime palestinesi e di procedere unicamente con attacchi mirati. Trump apre ogni sua orazione sul tema affermando che, se fosse stato lui presidente, Israele il 7 ottobre non sarebbe mai stato attaccato. Evasive e poco dettagliate le proposte su come risolvere la guerra in corso.

Ucraina – Punto di forza della retorica trumpiana, l’immediata risoluzione del conflitto russo-ucraino, da attuarsi addirittura “ancora prima di entrare in carica”, polarizza l’elettorato e spinge molti a pensare che un’energia azione di mediazione del tycoon sia l’unica realistica possibilità di metter fine alla guerra. Anche in questo caso, però, i dettagli e le modalità dell’eventuale proposta di accordo non vengono chiariti, tipica del personaggio invece l'(auto) attribuzione di raffinate capacità negoziali. Generiche le affermazione di Harris in materia: la vicepresidente si limita a spingere per il rafforzamento della difesa ucraina con l’ulteriore invio di armi ed equipaggiamenti e, in questo caso, sposa totalmente la posizione dell’amministrazione Biden. Un supporto decisamente à la carte.

Cina – Tratteggiato come avversario predestinato già negli ultimi anni dell’amministrazione Obama, la Repubblica Popolare è accusata di gettare la sua ombra rossa sulle prospettive americane in campo economico, geopolitico e interno. Il candidato repubblicano è da sempre il più duro e propone ulteriori barriere commerciali che rafforzino quelle introdotte nella sua prima presidenza, portando i dazi sulla merce cinese oltre il 50%. In alcuni ambienti economici vicini ai repubblicani, aleggia tuttavia l’idea che Trump possa mostrare, oltre al bastone, anche la carota e procedere a un accordo generale con il rivale cinese per normalizzare le relazioni di lungo termine. Harris mostra invece di considerare nociva una guerra commerciale, temendo soprattutto il riacutizzarsi dell’inflazione, e spinge per un confronto più soft che metta però al centro alcuni punti fermi: aiuto a Taiwan, divieti sull’esportazione di tecnologie avanzate e ferrei controlli in materia di spionaggio industriale.

Europa – Molte increspature di superficie ma fondo comune sulle relazioni transatlantiche. Trump ricorre ai suoi tipici modi assertivi e afferma che costringerà l’alleato europeo alla convergenza in materia geopolitica ed economica, rivendica di aver fatto incrementare la spesa militare ai recalcitranti paesi del Vecchio Continente già nel precedente quadriennio e minaccia un inattuale disimpegno americano dal fronte europeo. Differente nei toni, Harris ne condivide però gli obiettivi e spinge per un ulteriore aumento della spesa militare europea e un definitivo allineamento della politica estera di Bruxelles a quella di Washington con l’abbandono di qualsivoglia tentativo mediazione con Russia e Cina.