Una delle immagini diffuse dal Dipartimento di Stato americano mostrano la prigione di Saydnaya

Una struttura costituita da tre bracci principali, a formare una Y. Poco distante un edificio più piccolo, simile a una L rovesciata. Accanto al primo la scritta main prison (prigione principale), mentre l’indicazione che punta al secondo suggerisce la presenza di un probable crematorium (probabile forno crematorio). Le foto satellitari declassificate e diffuse dal Dipartimento di Stato americano mostrano la zona in cui si trova “il mattatoio”, il carcere militare di Saydnaya, a 30 chilometri dalla capitale siriana Damasco. Le immagini dimostrerebbero, secondo il governo Usa, come il regime di Bashar al-Assad abbia deciso di utilizzare un forno crematorio per sbarazzarsi dei migliaia di corpi torturati e impiccati che ogni giorno escono dal carcere.

Le accuse – «Dato che le numerose atrocità perpetrate dal regime siriano sono state abbondantemente documentate, riteniamo che la costruzione di un crematorio sia il tentativo di nascondere le esecuzioni di massa nella prigione di Saydnaya. E fonti credibili hanno riferito che molti dei corpi sono stati sotterrati in fosse comuni», ha detto Stuart Jones, assistente del segretario di Stato per il medio e vicino Oriente, durante una conferenza stampa. Jones ha poi accusato Assad di essere «sprofondato a un nuovo livello di depravazione» e di averlo fatto anche grazie al «sostegno di Iran e Russia». Secondo gli Usa, Mosca «dovrebbe assumersi la responsabilità di garantire il rispetto dei diritti umani da parte del regime siriano».

La prigione – Le foto diffuse dagli Stati Uniti sono state scattate da satelliti commerciali e coprono un periodo che va dal 2013 ad oggi. Nonostante non possano provare «in modo assoluto» che il secondo edificio sia un crematorio, «evidenziano una costruzione coerente con quel genere di utilizzo», ha precisato Jones. Saydnaya è un piccolo villaggio cristiano a nord di Damasco dove, negli anni ‘80, il regime della famiglia Assad ha costruito una delle due prigioni destinate agli oppositori politici (l’altra si trova a Palmira, conquistata dall’Isis a metà 2015 e non più in funzione). Attraverso le testimonianze di 65 sopravvissuti e grazie alla collaborazione di un team di specialisti di Architettura forense, Amnesty International ha potuto realizzare un tour virtuale interattivo nel carcere militare, nel quale è possibile ripercorrere l’esperienza di cinque testimoni, tra i pochi a uscire vivi da Saydnaya. Il carcere militare ospita all’incirca, secondo quanto riportava la Ong a febbraio, 30mila detenuti.

I precedenti – La denuncia degli Stati Uniti proverebbe dunque come il regime siriano si sia attrezzato per “cancellare” le prove della «politica di sterminio» in corso all’interno del carcere. Sterminio che però era già noto da tempo. Tre mesi fa, il 7 febbraio 2017, Amnesty ha pubblicato un report dal titolo “Il mattatoio di esseri umani: impiccagioni di massa e sterminio nella prigione di Saydnaya”, in cui rivela come dal 2011 al 2015 il governo siriano abbia portato avanti una campagna pianificata di esecuzioni extragiudiziali mediante impiccagioni di massa all’interno della prigione. L’Ong denuncia che, nei quattro anni presi in esame, circa 13mila persone, per lo più civili sospettati di essere oppositori, sarebbero stati vittima delle impiccagioni segrete. Il rapporto è redatto sulla base di interviste fatte a 84 testimoni oculari, tra cui guardie carcerarie, ex detenuti, familiari, magistrati e avvocati, oltre che a esperti nazionali e internazionali. Le esecuzioni di massa, eseguite una o due volte la settimana, avrebbero coinvolto fino a 50 detenuti alla volta. Non solo. A Saydnaya, aggiungeva l’organizzazione nel documento, «sono inflitte ai detenuti condizioni inumane, abusi, sistematiche privazioni di acqua, cibo, cure mediche e medicine» mentre sono costretti a ubbidire a «regole speciali» (come il divieto di fare alcun tipo di rumore) e «la tortura pare far parte di un tentativo sistematico di degradare, punire e umiliare i prigionieri».

Il portavoce – «Noi non abbiamo ancora potuto esaminare le immagini diffuse dagli Usa in maniera indipendente e non siamo dunque in grado di confermare o smentire l’ipotesi del forno crematorio. Nonostante questo, la sua esistenza è possibile». Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commenta le dichiarazioni del Dipartimento di Stato americano sottolineando che «si riconoscono tutti gli elementi dello sterminio pianificato già denunciato lo scorso febbraio. Il nostro rapporto si riferiva al periodo 2011 – 2015 e non possiamo essere certi che le esecuzioni continuino. Ma se fosse così, in qualche modo i cadaveri vanno eliminati e un crematorio lascerebbe meno tracce». Il documento di Amnesty faceva riferimento alla presenza di due edifici nella prigione, uno “rosso” e uno “bianco”. Sarebbe proprio quello bianco che, secondo gli americani, sarebbe stato modificato nel periodo successivo al 2015 per la realizzazione del forno. «L’immagine dei crematori suscita in noi europei, per ragioni storiche, più orrore delle fosse comuni. Ma la sostanza non cambia», conclude Noury, «Mentre la denuncia di Amnesty di febbraio rimane inascoltata e sul piano dei diritti umani non succede nulla, ora la denuncia degli Usa fa parte di un piano politico preciso, che coinvolge sopratutto la Russia. Per il momento non cambia nulla, chi dovrebbe risolvere la situazione resta seduto intorno a un tavolo e in Siria l’impunità è all’ordine del giorno».