This team has so much to be proud of. Whatever happens tonight, thank you for everything. pic.twitter.com/x13iWOzILL
— Hillary Clinton (@HillaryClinton) 9 novembre 2016
Hillary Clinton perde in Florida, Ohio, North Carolina, Pennsylvania e Michigan, i cosiddetti stati in bilico fra i due candidati. Alle 17.55, ora di New York, invia un tweet per il suo staff “Qualunque cosa accada stasera, grazie di tutto”. Il tentativo di rimonta ha vita breve: nella notte fra l’8 il 9 novembre 2016 Donald Trump diventa ufficialmente il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
Clinton non sembra saper fare i conti con una nuova sconfitta alle elezioni presidenziali. Non si presenta al quartier generale del suo comitato e manda avanti il portavoce John Podesta a dire ai sostenitori: «si possono ancora ricontare i voti. Andate a casa a riposare, ci vediamo domani». L’ultimo passo nel progetto di riforma del partito democratico, una donna alla Casa Bianca, rimane incompiuto. A penalizzare Hillary è stata forse la percezione che gli elettori hanno di lei come di una persona poco trasparente. Una candidata preparata, ma non sufficientemente empatica da trasmettere l’entusiasmo necessario a convincere gli indecisi a votare per lei.
«Non resterò a casa a preparare tè e biscotti», dichiara durante un’intervista a 60 minutes, il programma televisivo di attualità più famoso negli Usa. «Lei non molla, non si arrende», le riconosce Donald Trump durante il secondo dibattito fra i due. Bastano queste frasi a inquadrare la figura della candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti. Una donna descritta dai suoi collaboratori come ambiziosa, gran lavoratrice e sicura di sé.
Sicura di sé lo è dai tempi del liceo, il Maine South a Park Ridge, un sobborgo di Chicago. In un’intervista a se stessa per il giornale d’istituto, il Southwords, elenca i suoi meriti scolastici e conclude scrivendo: «I miei progetti dopo il liceo sono di sposare un senatore e stabilirmi a Georgetown (Washington D.C.)».
In quel periodo è la repubblicana Hillary Rodham, che sostiene l’allora candidato alla presidenza Barry Goldwater durante i dibattiti a scuola per le elezioni simulate. Si scontra con i coetanei democratici soprattutto riguardo a politica nucleare e a questioni legate al Vietnam. E’ il 1964 e il Partito Repubblicano perde nel Paese, ma vince al Maine South High School. Hillary si avvicinerà allo schieramento opposto all’università, lontana dall’influenza del padre, Hugh Rodham.
Conosce Bill Clinton a Yale nel 1971, dove sono entrambi studenti di legge. Si sposano quattro anni dopo, ma Hillary è femminista e sceglie di mantenere il proprio cognome. Quando il marito viene eletto governatore dell’Arkansas, Jack Hill, un giornalista della tv pubblica, le fa notare come le sue idee progressiste e il suo concentrarsi sulla propria carriera possano non piacere agli elettori di quello stato, per la maggioranza conservatori. Hillary Rodham non si scompone e risponde che ognuno dovrebbe essere giudicato per i propri meriti.
Ancora nel 1992 il New York Times riporta che gli elettori, specialmente quelli repubblicani, preferiscono una first lady più dedita al ruolo di moglie e madre. Lei risponde di essere «una moglie, una madre e un’attivista» e aggiunge di non capire come il suo essere dichiaratamente femminista possa contrastare con quei ruoli.
Prima di sposare Bill, rifiuta la proposta due volte per seguire le proprie aspirazioni. In quegli anni si occupa soprattutto di diritti civili: si concentra sui disagi dei minori nelle zone povere del Massachusetts e pubblica un articolo dal titolo Children Under the Law (I bambini e la legge) sulla Harvard Educational Review. Partecipa ai lavori del sottocomitato sugli immigrati del senatore democratico Walter Mondale (vicepresidente di Jimmy Carter) ed è uno dei 39 avvocati incaricati di istituire il processo contro Richard Nixon, durante il caso Watergate.
Anche Bill Clinton è animato dall’ambizione e a 27 anni ha già Washington nei suoi piani. «Votate Clinton, ne avrete due al prezzo di uno», dice durante i comizi per le elezioni presidenziali del 1992. Sono questi i Clinton, anzi i #billary come vengono chiamati su Twitter: una coppia unita dal progetto di riforma del partito democratico e dalla determinazione nel perseguire i propri obiettivi. E’ un’alleanza politica di tale importanza, che Hillary nell’ultima campagna elettorale ha scelto di chiamarsi solo Clinton per sottolineare il loro legame agli occhi degli elettori. Il Washington Post fa notare come mantenga il solo nome del marito quando può essere politicamente vantaggioso e aggiunga il proprio quando non rappresenta una minaccia per i risultati elettorali.
Nel 1992 Hillary appoggia il marito, ma non accetta di essere esclusa dal progetto politico. Il suo modello di first lady è Eleanor Roosevelt, moglie di Franklin Delano Roosevelt e attivista per i diritti civili della comunità afroamericana e per i diritti delle donne. Hillary ottiene l’assegnazione di un ufficio nell’ala ovest della Casa Bianca dal quale guiderà il gruppo presidenziale incaricato di preparare una riforma del sistema sanitario. è la sua prima grande sconfitta: il provvedimento tarda ad arrivare e viene scritta per intero nel suo ufficio senza che venga aperto alcun dibattito con l’opposizione. Il risultato è di essere bocciata al Senato e diventa una delle ragioni per cui alle elezioni di metà mandato i democratici perdono entrambe le camere del Congresso. Nella sua autobiografia, Living History, Hillary si dice «abbattuta, delusa» per il fallimento.
Si ritira dalla politica attiva e si dedica alla lotta per i diritti civili delle donne, dei bambini e delle minoranze. Un periodo di pausa che durerà fino al 21 gennaio 1998, quando un articolo del Washington Post fa scoppiare lo scandalo su Monica Lewinsky. L’indagine parte da un ramo dell’inchiesta Whitewater, legata a investimenti immobiliari dei Clinton in Arkansas. Il Congresso vuole destituire Bill e Hillary torna in campo per salvare il marito: accusa i repubblicani di aver preparato tutto per distruggere l’amministrazione democratica e ritrova la propria capacità d’influenza politica.
Secondo l’Atlantic, la figlia Chelsea contribuisce a tenere unita la coppia dopo il caso Lewinsky e durante le varie campagne elettorali dei due: «Sempre pronta ad adempiere ai suoi doveri di figlia e politica consumata». Alla Convention del partito democratico del 2016 dipinge la madre come una donna presente a ogni recita. Ricorda i biglietti che le lasciava quando doveva allontanarsi da casa per lavoro e la passione comune per Orgoglio e Pregiudizio. Hillary parla di Chelsea nel libro It takes a village e ricorda i dibattiti simulati a cena per fortificarla contro ogni tipo di accusa potesse essere mossa ai genitori. A sei anni deve imparare a controllare le emozioni e a 36 appare sempre composta e posata in pubblico.
Nel 2000 Hillary è pronta a candidarsi come senatrice per lo stato di New York. Dopo essere stata la prima donna a diventare socia del Rose Law Firm (il terzo studio legale più antico d’America) nel 1979, diventa la prima first lady a candidarsi per una carica elettiva. Torna a occuparsi di immigrazione, sanità e diritti delle donne. Da senatrice commette un nuovo errore: vota a favore dell’invio dell’esercito americano in Iraq durante la presidenza di George W. Bush. Le sarà rinfacciato dai suoi avversari durante la corsa alla presidenza.
Nel 2008 si candida alle primarie del partito democratico e perde contro Barack Obama. Accetta il ruolo di segretario di Stato (cioè di ministro degli Esteri) rimarcando nelle interviste il suo senso del dovere nei confronti del Paese. Riesce a rilanciare l’influenza degli Stati Uniti nel mondo dopo il periodo Bush e pone le basi per l’accordo sul nucleare con l’Iran. Continua a schierarsi a favore dei diritti delle donne e della comunità LGBT. Le sue idee interventiste le fanno commettere un terzo errore: spinge Obama all’intervento americano in Libia contro Gheddafi e nel 2012, durante un attacco al consolato statunitense, muoiono l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani.
La storia di Hillary Clinton mostra la sua difficoltà ad ammettere gli sbagli. In questa campagna elettorale ha dovuto riconoscere pubblicamente, 12 anni più tardi, che il voto a favore della guerra in Iraq è stato «un terribile errore». Passano sette mesi anche prima che chieda scusa per la leggerezza commessa nel non utilizzare l’account email governativo per le comunicazioni professionali. Per la morte di Stevens non si scusa. Politico riporta il suo atteggiamento presidenziale e «di superiorità» di fronte alla commissione del Congresso istituita per indagare sui fatti di Bengasi che la interroga per 11 ore. «Ho perso più sonno io per questa faccenda, che tutti voi messi insieme», dice e successivamente ribadisce la sua lealtà verso il Paese: «Non voglio che nulla di quello che viene detto sul mio conto o contro di me metta in ombra gli sforzi eroici che gli uffici per la sicurezza diplomatica hanno fatto».
Non ama stare sulla difensiva nemmeno in campagna elettorale. Nel 1980, quando Bill non viene rieletto governatore dell’Arkansas, Hillary chiama in aiuto Dick Morris, un sondaggista famoso per l’aggressività con la quale tratta gli avversari, per rilanciare l’immagine del marito. Nel 2008 si dice che le voci e le notizie false su Barack Obama siano state fatte circolare da Sidney Blumethal, vecchio assistente dell’ex presidente Clinton.
Con lo stesso atteggiamento affronta anche gli scandali che hanno segnato la storia dei Clinton in America. Dal Whitewater, all’emailgate, alla Clinton Foundation, fondazione benefica sospettata di avere fra i suoi sostenitori persone molto interessate alla politica del Paese e ai contatti della famiglia Clinton. Scandali che si accompagnano alle accuse di scarsa trasparenza. La Hillary femminista è nel mirino dell’opinione pubblica per aver cercato di distruggere la reputazione delle donne che hanno accusato il marito, per proteggere Bill e la propria carriera politica. La Hillary democratica è stata criticata da Bernie Sanders per i suoi rapporti troppo stretti con Wall Street, avendo ricevuto corposi finanziamenti dalle banche d’investimento.
Clinton è la prima donna candidata di un grande partito alla presidenza degli Stati Uniti. Secondo molti esperti, e secondo lo stesso presidente Obama, è la persona meglio preparata che si sia mai presentata alle elezioni. Ma fra gli americani raccoglie più consensi durante un mandato che durante una candidatura e di nuovo, come nel 2008, ha pagato la scarsa fiducia che gli elettori le accordano.