«Sto abbastanza bene ma sono addolorato per aver perso un grande amico». Sono queste le prime parole con cui Corrado Zunino, inviato in Ucraina per La Repubblica, ha commentato ai microfoni di Radio Capital quello che è successo mercoledì 26 marzo a Kherson, durante una delle sue giornate da corrispondente di guerra. È rimasto ferito ma il suo fixer, Bogdan Bitik, è morto sotto l’attacco di cecchini russi. «Mi aveva proposto lui stesso di fare un video mostrando l’altra parte, che secondo le nostre informazioni sarebbe dovuta essere in parte in mano ucraina», ha spiegato il giornalista. Dalla voce di Zunino traspare la fatica e il dolore per l’amico perso per mano russa. «Senza un lamento è caduto al suolo», ha raccontato. «Ho girato la testa per vedere se mi seguiva, ma lui era fermo sul ponte e non si muoveva».

Il racconto – Il giornalista si è difeso da potenziali accuse di essere andato incontro a un pericolo non necessario: ai microfoni di Radio Capital ha confermato di avere preso tutte le precauzioni possibili. «Avevamo il permesso di lavorare al sud del paese», ha spiegato. Ha aggiunto poi che ai checkpoint non li avevano fermati. «Non c’era a Kherson un’atmosfera di guerra. C’era silenzio attorno a quel ponte».
Sulle prime pagine del giornale per cui lavora, in un reportage scritto dall’ospedale dove è stato medicato, Zunino ha raccontato quello che è successo e il suo rapporto con Bitik. «Lavoravamo insieme da mesi. In tutte e cinque le missioni in Ucraina ho avuto lui al mio fianco». Zunino ha riferito che insieme a Bitik si era inoltrato fino al ponte Antonovsky, sopra il fiume Dnepr. Sulla sponda meridionale si era rifugiato l’esercito russo lo scorso 11 novembre, dopo la liberazione di Kherson. Secondo i contatti del giornalista italiano, al di là del fiume erano arrivate alcune avanguardie ucraine. I due non hanno però avuto modo di girare il video che avevano entrambi in mente di fare: i soldati ucraini hanno iniziato a gridare a Zunino e Bitik per mandarli via, ma i proiettili dei cecchini russi li hanno raggiunti prima. «Ho sentito i colpi, un bruciore alla spalla e ho visto Bogdan cadere a terra a un metro da me». Poi la fuga di Zunino, che ha raccontato di avere dovuto lasciare a terra il fixer, non sapendo ancora del suo destino. «Due ore dopo mi dicono che il suo corpo è lì: è troppo pericoloso prenderlo sotto il tiro dei cecchini». Zunino è stato soccorso da un civile che stava passando in auto e accompagnato in un ospedale. Medicato per la ferita alla spalla e per altre tre che si è procurato mentre fuggiva, ai microfoni di Radio Capital ha detto di stare abbastanza bene da potere già tornare in Italia: il suo trasferimento è già organizzato.

Vita da fixer –  Bogdan Bitik, quarantaseienne di Kyiv, aveva incontrato Corrado Zunino su un treno che collegava Lviv con la capitale ucraina. Sin da subito avevano instaurato un rapporto personale e professionale che si era poi coltivato nel corso delle cinque missioni dell’inviato de La Repubblica. Bitik viveva in Indonesia con la moglie e il figlio ventiduenne, ma era tornato in patria per aiutare la madre e il fratello all’inizio della guerra. Istruttore di kitesurf, in Ucraina si era reinventato come fixer: accompagnava Zunino in auto in giro per il Paese in guerra, traduceva le interviste dall’ucraino, parlava con i militari ai checkpoint, trovava contatti con persone del posto. La vita di un fixer, come dei tanti che accompagnano gli inviati di guerra. Il loro ruolo è fondamentale per i corrispondenti, che altrimenti dovrebbero risolvere da soli i grandi e piccoli problemi che si creano mentre si fa informazione durante un conflitto in un Paese straniero.
«Quando la guerra era agli inizi, ricevevano un compenso netto di 200 euro», ha raccontato a La Sestina Gianluca Di Feo, vicedirettore de La Repubblica, in merito al rapporto lavorativo fra una testata e i fixer. La cifra, però, valeva solo se dotati di un’auto propria così da fare anche da autisti per i giornalisti. In merito a un’eventuale assicurazione, Di Feo esclude che i fixer ne abbiano una: trovandosi già là dove è in corso un conflitto, non corrono un rischio diverso rispetto a vivere entro i confini nazionali.
Il pericolo è connaturato al ruolo, ma, come il giornalista che accompagnava, anche lui si presentava con la scritta “Press” per segnalare la propria neutralità a entrambe le parti. Durante l’attacco russo dall’altro lato del fiume, Bitik non indossava il giubbotto antiproiettile che il giornalista italiano invece aveva.
Zunino sostiene che non avevano individuato il «pericolo imminente», non avevano percepito che «Kherson fosse pericolosa». Nelle parole del giornalista italiano traspare il profondo rispetto che provava per il fixer. «Non forzavamo mai la volontà l’uno dell’altro: o avevamo entrambi la volontà di fare qualcosa, oppure non si faceva». Dietro al rispetto professionale c’era anche un rapporto profondo: «Una sofferenza atroce. Bogdan era un grande amico e un giornalista di valore».