«Abbiamo preso Damasco», così i ribelli hanno annunciato il loro ingresso nella capitale, dichiarando la fine delle ostilità e l’inizio di una “nuova era”. A guidarli è Abu Muhammad al-Jawlani, il generale-condottiero figlio di Al-Qaeda che ha guidato i ribelli fino alla vittoria ed ora vuole mostrarsi come il volto moderato della rivoluzione.
In pochi giorni le forze ribelli hanno preso il controllo del Paese, quasi senza sparare un colpo. Partiti dalla regione di Idlib a sud della Turchia, il 27 novembre gli insorti hanno iniziato il loro assalto alle postazioni dell’esercito regolare e in due giorni sono entrati ad Aleppo. Il 5 dicembre riescono a sfondare le linee governative ed entrano ad Hama, città simbolo del regime di Bashar al-Assad. Qui nel 1982, per reprimere la rivolta sunnita, le forze del precedente dittatore Hafiz al-Assad hanno concentrato i bombardamenti togliendo la vita a 40mila tra civili e ribelli. Proprio ad Hama gli insorti hanno voluto dare un segnale politico, issando il tricolore verde, bianco e nero, simbolo della nuova Siria e aprendo le porte del carcere dove da decenni vengono rinchiusi gli oppositori politici. Città dopo città, sfruttando la debolezza del regime, l’avanzata è continuata inarrestabile e nella notte tra il 7 e l’8 dicembre gli insorti sono entrati a Damasco.
Bashar Al Assad non è più presidente. Insieme alla sua famiglia ha lasciato la Siria, ordinando una pacifica transazione di potere. Ora si trova a Mosca: Vladimir Putin gli ha concesso asilo politico per «motivi umanitari». In 11 giorni uno dei regimi più sanguinari del Medio-Oriente al potere da più di 50 anni, ha visto il suo tramonto.
Da Washington il presidente Joe Biden commenta: «Non permetteremo un ritorno dell’Isis». Mentre il cancellerie tedesco Olaf Scholz dichiara: «I nostri pensieri sono rivolti a tutte le vittime del regime di Assad».
Il numero uno della Farnesina Antonio Tajani fa sapere che all’ambasciata «stanno tutti bene».