Ventun anni dopo la pace di Kumanovo, il mondo si chiede ancora cosa sia il Kosovo: una succursale di Belgrado o di Tirana, il simbolo di una guerra etnica mai sopita e della mancata autodeterminazione di un popolo. Poco presente sulle pagine dei quotidiani occidentali, la capitale Pristina ha un nuovo governo fresco di sostituzione. Tanto per cambiare, fanno notare i balcanisti: è il quarto governo in dodici anni a non portare a termine il proprio mandato. Il presidente Hashim Thaçi ha nominato l’ex ministro delle Finanze Avdullah Hoti, del partito Ldk (Democratic League of Kosovo, la lega di centrodestra), in sostituzione del primo ministro ad interim Albin Kurti. Quest’ultimo era stato sfiduciato a marzo per controversie sulla gestione della pandemia di coronavirus e per la revoca della carica di ministro degli Interni ad Agim Veliu, della Ldk. In realtà sembra che il dissenso del Parlamento unicamerale fosse dovuto all’imposizione del principio di reciprocità con la Serbia, che interrompeva scambi commerciali e attività tra i due Paesi. Il partito di sinistra radicale Vetevendosje! (Autodeterminazione!), che fa capo a Kurti (celebre nel Paese per aver scontato due anni e mezzo in una prigione serba ai tempi della guerra), ha manifestato e si è appellato alla Corte Costituzionale. Ha avuto sfortuna: Thaçi ha assegnato il mandato senza nuove elezioni, ma secondo la Corte tutto ciò non è stato anticostituzionale. Il principio di reciprocità con la Serbia è stato così immediatamente rimosso, una mossa diplomatica fortemente voluta dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.

Un lungo conflitto etnico – Uscito dalla seconda guerra mondiale come provincia autonoma serba, il Kosovo era già a maggioranza albanese di religione musulmana. Con la morte del dittatore jugoslavo Tito, la popolazione aveva cominciato a rivendicare una propria indipendenza. Le tensioni (che videro l’assassinio dei fratelli a guida del movimento indipendentista da parte dei servizi segreti jugoslavi) crebbero fino alla fine degli anni ’80, quando il macellaio Slobodan Miloševic revocò l’autonomia e insieme a lei lo status dell’albanese-kosovaro come lingua ufficiale accanto al serbo-croato. La popolazione, sotto la guida del presidente eletto Ibrahim Rugova e del partito Ldk, attuò una resistenza per lo più non violenta, mentre il regime di Miloševic iniziò a fine secolo un’azione di repressione sistematica contro la popolazione albanese. I separatisti dell’Uck cominciarono negli anni ’96-99 a compiere atti di terrorismo contro lo Stato, a cui l’estremismo serbo rispose con una repressione dura. Nel ’99 intervenne la Nato, che minacciò il governo federale di Miloševic fino allo scontro armato. La Nato (partendo da basi italiane e con un nostro ampio supporto) attuò una media di 600 raid al giorno e nell’ultima parte della guerra bombardò con munizioni all’uranio impoverito. La pace di Kumanovo (che prende il nome dalla città macedone dove venne firmata) del 9 giugno 1999 sancì il ritiro delle truppe jugoslave dal territorio e la fine degli attacchi aerei della Nato – risoluzione per la quale sembra essere stato cruciale l’intervento russo. Migliaia di vittime, stupri e aggressioni ai civili resero la guerra una carneficina su una terra già travagliata da anni di conflitti.

Accordi bilaterali – Lo status della regione non è ancora chiaro: i colloqui bilaterali tra il governo serbo e quello kossovaro, cominciati a Vienna nel 2006 su insistenza di Bruxelles e Washington, hanno portato nel 2008 il Kosovo a dichiarare la propria indipendenza (durante il governo dell’allora premier Thaçi) e la Serbia a negarla. Mentre Thaçi si è detto favorevole a un accordo pur di entrare nella Ue e nella Nato, l’attuale presidente serbo Aleksandar Vucic non si è mai sbilanciato sul raggiungimento di un patto bilaterale. La scorsa settimana, in piena campagna elettorale, ha però fatto sapere che senza una normalizzazione dei rapporti con il Kosovo la Serbia non avrà un futuro europeo e non potrà aderire all’Unione. Alcuni hanno interpretato le sue parole come una sorta di annuncio dei passi da compiere dopo le elezioni del 21 giugno, ma Vucic ha affermato anche che la soluzione della crisi kossovara dipenderà dall’esito dello scontro tra l’Ue e gli Stati Uniti sul tema.

Tre aree d’influenza, una sola mafia –  La posizione europea e internazionale di Pristina potrebbe però essere compromessa anche dal tasso di traffici illeciti su cui si poggia: oggi è riconosciuta dai balcanisti come il centro di una rete mafiosa molto consolidata. La mafia kosovara, divisa in clan basati su legami di sangue, sarebbe responsabile del traffico di droga già dagli anni ’80 e sembra debba la sua crescita ai finanziamenti all’Esercito di Liberazione del Kosovo. La partecipazione di membri stranieri o singoli all’interno di questa comunità sarebbe molto difficile. In ottimi rapporti con le forze dell’ordine, la mafia si sarebbe ripartita il territorio in tre aree: Drenica, Dukagjin e Lab. La prima controlla le rotte per Montenegro e Macedonia (e secondo Sputnik sarebbe controllata proprio da Thaçi e dalla sua famiglia) per armi, auto, sigarette ed esseri umani. La seconda si occuperebbe di racket locali, sempre con connessioni tra Macedonia, Montenegro e Serbia. E la terza di traffico di stupefacenti. I clan del Kosovo, poi, sarebbero collegati con quelli turchi, albanesi e bulgari.