Dopo sei settimane di votazioni sta per concludersi l’epopea elettorale indiana, che deciderà del destino della più grande democrazia del pianeta per i prossimi cinque anni. Oltre mezzo miliardo di schede elettorali raccolte per la nuova Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento, stanno rivelando uno scenario tutt’altro che incerto: la coalizione di destra Alleanza Nazionale Democratica, che include il partito dell’attuale primo ministro Narendra Modi, ha già 349 seggi. Su 543 eleggibili a suffragio universale (più due nominati dal presidente della Repubblica Ram Nath Kovind). Di quei 349, 229 sono del solo Bharatiya Janata Party, letteralmente il Partito del popolo indiano, cioè quello del premier Modi. Il suo è il maggior partito conservatore del Paese, fautore di una politica nazionalista di riformismo economico e difesa dell’identità induista. È il primo partito al mondo per numero di tesserati con 110 milioni di iscritti, e Modi è il secondo capo politico più seguito su Twitter e Facebook dopo Barack Obama. Gli sfidanti, l’Alleanza dei Progressivi Uniti, hanno per ora 96 seggi. Tra questi, 51 i laici di centrosinistra del Congresso nazionale indiano, che ha schierato Rahul Gandhi (il nipote di Indira Gandhi).

Il sistema elettorale – L’India è una nazione federale con 29 Stati e 7 territori autonomi, controllati dallo Stato centrale in materia di riforme, economia, esteri. Il sistema elettorale indiano è, data la storia coloniale, uguale a quello inglese: collegio uninominale a turno unico. Le circoscrizioni sono tanti quanti i seggi, 543, quindi ogni partito presenta un solo candidato in ogni circoscrizione. Il sistema parlamentare è bicameralismo imperfetto, Camera alta (espressione degli Stati federali) e Camera bassa (espressione popolare). La Camera bassa detiene i principali poteri (tra cui il voto di fiducia al premier). I partiti con reali possibilità di governare in Parlamento sono sei e appartengono alle due alleanze, ma se ne sono candidati più di 2mila. Dalle alleanze, verrà nominato un premier: il mandato è assegnato al candidato della coalizione che ottiene la maggioranza dei voti, che sia già un membro del Parlamento.

Sostenitori del Bharatiya Janata Party (BJP) – foto EPA/RAJAT GUPTA

Conseguenze – Dopo una vittoria schiacciante già nel 2014 (con cui aveva messo fine all’egemonia dei Nehru-Gandhi), Modi si appresta a tornare in carica con un’approvazione popolare di poco inferiore. I conflitti degli ultimi mesi con il Pakistan e la sconfitta nelle elezioni locali del dicembre 2018 sembravano aver messo in pericolo la sua vittoria, così come il tasso di disoccupazione di gennaio al 6% (il più alto degli ultimi 45 anni). Ma non è andata così: Narendra Modi è l’uomo forte dell’India, che riesce a catalizzare gli interessi di investitori e industriali con un’impronta liberista e allo stesso tempo a difendere l’identità religiosa nazionale (se pure con alleggerimenti, come la recente decriminalizzazione dell’omosessualità). Un modello polarizzante che va per la maggiore in tutto il mondo, ma che in India è particolarmente complesso da mantenere: ci sono 23 lingue riconosciute per quasi 1 miliardo e 400mila abitanti. Con il nuovo mandato Modi spera di allontanare le costanti accuse di corruzione (che hanno stimolato la nascita di partiti d’ispirazione populista), controllare l’imponente burocrazia e stimolare l’occupazione.