Lo scontro tra israeliani e palestinesi è entrato nella sua seconda settimana. Nella notte tra il 16 e il 17 maggio l’aviazione di Tel Aviv ha compiuto oltre 50 raid aerei, colpendo 35 obiettivi e distruggendo 15 km di tunnel a Gaza. Nonostante le insistenti richieste internazionali, un cessate il fuoco sembra essere lontano. Preoccupa poi il fronte interno nelle città israeliane.
La notte di Gaza – La giornata di domenica 16 maggio è stata quella che ha visto il bilancio più drammatico: secondo il ministero della Salute di Gaza, sono stati 42 i morti nella Striscia, tra cui 16 donne e 10 bambini. Israele ha continuato i suoi raid nella notte successiva, con crescente potenza. In particolare, sono stati presi di mira i tunnel che corrono sotto il territorio della Striscia, dove si ritiene che Hamas depositi i suoi razzi e altro materiale militare. L’aviazione israeliana sostiene di averne distrutti 15 km, oltre ad aver raso al suolo le case di 9 comandanti di Hamas, tra cui quella del leader Yahya Sinwar. Non si registrano però decessi: fonti locali parlano di un ferito, per via della scelta di Tel Aviv di indicare in anticipo il luogo e l’ora dell’attacco. Questa scelta ha l’obiettivo di minimizzare le vittime civili, cosa che però spesso non accade per via della violenza dei bombardamenti e perché gli obiettivi militari sono volutamente piazzati in zone densamente abitate. Il bilancio complessivo, ma comunque provvisorio, dall’inizio del conflitto è di 198 vittime palestinesi e 10 israeliane.
Tregua ancora lontana – La situazione umanitaria a Gaza è preoccupante. Gli ultimi raid hanno danneggiato generatori elettrici e infrastrutture: si teme che la Striscia possa non avere più elettricità entro pochi giorni, con conseguenze tragiche per esempio sulla situazione degli ospedali. La comunità internazionale chiede con sempre maggiore insistenza un cessate il fuoco: gli ultimi in ordine di tempo sono stati gli appelli del segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres e del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi. Tuttavia, le parti in causa non sembrano intenzionate a cedere. Il premier di Tel Aviv Benjamin Netanyahu ha dichiarato che «Israele andrà avanti al massimo della propria forza fino a quando sarà necessario, ovvero fino a quando non tornerà la calma per i cittadini israeliani». Mentre il vice-capo di Hamas Moussa Abu Marzouk ha replicato: «Se non si ferma Israele noi non ci fermiamo. E il cessate il fuoco sarà alle nostre condizioni, non alle loro».
Il fronte interno – La fermezza delle due parti si spiega anche con la rispettiva situazione interna. Hamas vuole scalzare Fatah dal governo della Cisgiordania e per fare ciò si mostra inflessibile contro il nemico sionista. Similmente, Netanyahu intende accreditarsi come l’unico esperto leader che sappia gestire simili situazioni di difficoltà, in un periodo in cui sono in corso le consultazioni per formare un nuovo governo dopo le quarte elezioni in due anni. Notizie preoccupanti arrivano però dalle città israeliane. Non si placa la violenza tra ebrei e arabi, che rappresentano il 20% della popolazione israeliana e con cui la convivenza era stata finora relativamente pacifica. I partiti arabi hanno dichiarato lo sciopero generale per martedì 18 maggio, in solidarietà con le famiglie sfrattate a Gerusalemme Est e per le restrizioni all’ingresso nella moschea di Al-Aqsa. Sette persone sono state arrestate a Lod, città israeliana a maggioranza araba. Il fronte interno è potenzialmente il più preoccupante per Israele: la superiorità militare su Hamas è travolgente, ma una rivolta di milioni di propri cittadini arabi sarebbe molto più difficile da gestire.