Il 20 marzo 2003 iniziò la cosiddetta seconda guerra del Golfo. Il Presidente George W. Bush decise di invadere l’Iraq controllato dal dittatore Saddam Hussein per delle prove di armi chimiche risultate, dopo anni, false. A venti anni dallo scoppio del conflitto, Francesco Schiavi, analista dell’Ispi esperto in nord Africa e Medio Oriente, racconta cos’è l’Iraq oggi: un Paese dall’economia fragile dove l’esperimento democratico ha lasciato ferite ancora aperte.

Com’è cambiato il Paese dopo venti anni?

L’invasione anglo-americana veniva subito dopo quella in Afghanistan nel 2001. L’Iraq doveva essere un esempio di come si potesse creare “un’isola di prosperità” in una regione difficile, ma a distanza di venti anni il Paese ha ancora molte delle fragilità che aveva nel 2003: debolezza delle istituzioni, corruzione e infiltrazioni di gruppi paramilitari. Gli Stati Uniti non furono in grado di garantire la sicurezza nel Paese, dai confini entrarono gruppi terroristici come Al-Qaeda e l’ISIS, e i soldati locali addestrati dagli alleati non offrirono resistenza. L’Iraq ha un’economia scarsamente diversificata, più del 90% delle entrate derivano dall’export del petrolio, più di 115 miliardi nel solo anno passato. Invece, l’import iracheno comprende la maggior parte dei prodotti alimentari e dei derivati alimentari in un contesto in cui scarsità idrica e desertificazione stanno logorando i produttori locali.

Qual è la linea del governo Al-Sudani?

Gli Stati Uniti costruirono un sistema politico sul modello libanese, a ogni etnia un rappresentante: il Presidente della Repubblica è curdo, il premier sciita, il presidente del Parlamento sunnita. Lo scorso ottobre si è risolta una crisi istituzionale durata più di un anno che si è conclusa con l’elezione del presidente Abdul Latif Rashid che ha nominato il premier Mohammed Shia’ Sabbar Al-Sudani sostenuto dalla coalizione sciita ribattezzata “Gruppo di coordinamento”. La coalizione si è resa necessaria per sciogliere l’impasse istituzionale, soprattutto dopo che i membri del partito sciita al-Sadr hanno disertato i lavori parlamentari nel luglio 2022. Sulla politica estera il premier ha recentemente confermato il supporto alla presenza di truppe occidentali: «Se volete rimanere in carica dovete ritirare le vostre richieste per la partenza delle forze americane, altrimenti è inevitabile un terremoto politico», ha riferito ai membri del Gruppo di coordinamento. L’Afghanistan è stato un campanello d’allarme per l’Occidente, per questo in Iraq si è deciso di cambiare politica con missioni di training e di pace, ma le truppe non lasceranno il Paese.

Sul fronte interno, dal suo insediamento il premier ha iniziato un’azione anti-corruttiva anche in seguito al cosiddetto “colpo del secolo”, ovvero la scomparsa di 2 miliardi e mezzo di dollari dalle casse dello stato in un anno di prelievi illeciti. Per questo è nata una commissione d’inchiesta incaricata di recuperare i fondi. Al momento ciò che preoccupa di più il presidente è la crisi finanziaria dovuta alla svalutazione del dinaro iracheno che può causare attriti con la regione autonoma del Kurdistan per la definizione del budget annuale di investimenti.

A cos’è dovuta la crisi irachena? E qual è il ruolo della Federal Reserve?

Dal 2003 la Federal Reserve, la banca federale degli Stati Uniti, controlla le riserve di moneta estera dello stato iracheno. Ogni giorno Baghdad chiede 200 milioni di dollari alla Federal Reserve, la maggior parte reinvestiti nell’import di prodotti fondamentali come i cereali. Ma il sistema è abbastanza permeabile e su questo si basa la crisi finanziaria ed economica del Paese. Gli Stati Uniti ritengono che la valuta americana venga contrabbandata in Iran e Siria, colpite dalle sanzioni di Washington. Perciò, la Federal Reserve ha limitato le transazioni causando una svalutazioni della moneta: si è passati da 1.460 dinari iracheni per dollaro a più di 1.700. L’inflazione e il costo dei prodotti importati stanno salendo da dicembre e nel Paese c’è un forte malcontento e numerose sono le manifestazioni anti-governative.