di Vincenzo Scagliarini e Antonio Soggia
«Sono tornato ancora in Iowa per chiedere il vostro voto», ha detto Barack Obama alle 20.000 persone che da ore lo aspettavano nel freddo a Des Moines. Commosso e stremato, ha ricordato che qui si è chiuso il cerchio: in Iowa era cominciata la sua avventura per le elezioni presidenziali del 2008 e in Iowa ha scelto di fermarsi per l’ultima delle tre tappe del 5 novembre, che hanno chiuso la difficile campagna elettorale democratica.
Bisognava tenere duro e guardare avanti, e Forward è stato lo slogan di queste settimane. Bruce Springsteen, al fianco del presidente nel rush dell’ultimo giorno, ha messo in musica le parole chiave della campagna di Obama, come aveva fatto nel 2008. “Forward. Here we go” e “Yes we can”, due slogan che segnano due momenti differenti: la speranza nel cambiamento la prima volta e l’invito, all’America in crisi, a tenere duro e ad andare avanti insieme nel 2012.
Dopo gli ultimi comizi Obama si è spostato a Chicago per trascorrere l’Election day con la moglie Michelle, mentre Mitt Romney ha fissato nuovi incontri a urne aperte.
Nella campagna elettorale Obama ha difeso il bilancio dei quattro anni di presidenza: la riforma sanitaria, la regolamentazione di Wall Street, il salvataggio del settore automobilistico e il pacchetto di stimolo all’economia da 850 miliardi di dollari, il progressivo ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan senza abbandonare la lotta al terrorismo. E si è impegnato ad “andare avanti” su questa linea, promettendo un fisco più equo, fondi all’istruzione per combattere la disuguaglianza delle opportunità e una riforma dell’immigrazione.
In Europa, secondo una rilevazione della società inglese YouGov condotta in sette Paesi (ma non in Italia), Obama avrebbe il 90 per cento dei consensi, ma le ragioni della sua popolarità all’estero lo hanno reso intollerabile a una parte dei suoi concittadini. Forse dipende anche dal suo profilo multiculturale: figlio di un cittadino keniota e di una bianca del Kansas, nato alle isole Hawaii e cresciuto in Indonesia accanto alla madre e al suo nuovo compagno, Barack Obama è il presidente più cosmopolita che gli Stati Uniti abbiano mai avuto.
L’estrema destra ha giudicato un-American non solo le sue politiche, ma la sua stessa identità: lo ha accusato di essere musulmano, ha sollevato il sospetto che non fosse realmente nato sul suolo americano (sostenendo, quindi, che non potesse candidarsi alla presidenza), lo ha rimproverato, come ha fatto il candidato repubblicano alla vicepresidenza Paul Ryan pochi giorni fa, di andare contro i valori giudaico-cristiani dell’America. I conservatori non dimenticano che nel discorso d’insediamento, il 20 gennaio 2009, Obama salutò gli Stati Uniti come “una nazione di cristiani e musulmani, ebrei, indù e non credenti”. Forse una parte dei bianchi – tra i quali nel 2008 il repubblicano John McCain prevalse con il 55% dei voti – non accetta che un afroamericano sia più colto, ricco e potente di loro.
Questo contribuisce a chiarire l’ostruzionismo con il quale i repubblicani hanno accolto l’agenda del presidente sin dal primo giorno e ancor di più dopo le elezioni di midterm del 2010, quando conquistarono la maggioranza della Camera dei Rappresentanti. E spiega anche l’entusiasmo col quale i conservatori vogliono trasformare Obama in un one-term-president: la notte elettorale ci dirà se ci sono riusciti.