Un taglio alle tasse da 1.500 miliardi di dollari in 10 anni, pari all’8% del Pil statunitense. Questo è il cuore della riforma fiscale attuata da Donald Trump a fine 2017. Quella proposta da Salvini per l’Italia sarebbe addirittura più radicale: si parla di 30 miliardi di annui, 300 in una decade. Circa il doppio rispetto a quella americana.

Via un terzo di tasse alle aziende – L’idea che ha spinto la Casa Bianca a un massiccio abbassamento delle tasse è che le imprese avrebbero usato i soldi risparmiati per investimenti e assunzioni. Si spiega quindi il taglio principale della riforma: l’imposta massima sugli utili d’impresa è passata dal 35% al 21%. Un aiuto fiscale è stato dato anche ai redditi individuali più elevati: l’aliquota massima è scesa di oltre due punti fino al 37%. È stata eliminata poi la Alternative minimum tax, una sorta di “super-aliquota” che andava a colpire con una tassa ulteriore i redditi personali e aziendali molto oltre l’aliquota massima, equivalente a un reddito annuo di 600mila dollari per gli individui e di 20 milioni per le imprese. Secondo Trump la Amt finiva per togliere risorse alla ricerca e allo sviluppo. Infine la riforma ha cercato di stimolare il rientro di capitali detenuti all’estero dalle società americane, un tesoretto stimato in 3mila miliardi da tassare una tantum al 15%. In contro tendenza rispetto al resto della riforma è stata una nuova tassa sugli utili realizzati negli Stati Uniti da aziende con la sede principale all’estero; tutti i ricavi spostati fuori dal territorio americano sono tassati al 10%. Infine disposizioni minori hanno previsto diverse altre deduzioni e agevolazioni fiscali a livello locale.

«Trump si taglia le tasse da solo» – La riforma ha spaccato in due la politica americana, con i Repubblicani esultanti in blocco e i Democratici fermamente contrari. L’opposizione ha addirittura insinuato che Donald Trump e le sue società sarebbero diretti beneficiari del taglio alle tasse, circostanza non smentita dalla Casa Bianca. La critica principale riguardava l’idea cardine dietro all’intera riforma, cioè che i soldi non dati al fisco ricadano sotto forma di investimenti e posti di lavoro nell’economia reale. Secondo gli avversari del Presidente, tagli di questo tipo hanno come unico effetto quello di aumentare i patrimoni degli strati più alti della società, senza nessuna ricaduta benefica per le fasce inferiori. I ceti medio-bassi sarebbero stati danneggiati anche dalle modifiche imposte nel testo della riforma al Obamacare, che di fatto hanno annullato l’obbligo di stipulare un’assicurazione sanitaria, aumentando di conseguenza il costo delle polizze.

Gli effetti 18 mesi dopo – Dal punto di vista politico la “Shock fiscale all’americana” non ha portato il consenso sperato. Alle elezioni di midterm del 6 novembre 2018, nove mesi dopo l’approvazione, i Repubblicani sono stati duramente sconfitti, perdendo 39 deputati e la maggioranza alla Camera, nonostante due trimestri di crescita economica superiore alle attese. Secondo il premio nobel per l’economia Paul Krugman, da sempre schierato sulle posizioni più di sinistra del partito Democratico, il +4% segnato dal Pil è dovuto all’aumento dei consumi e alla spesa pubblica, mentre non c’è traccia, afferma Krugman, dei massicci investimenti privati annunciati da Trump. Il denaro risparmiato sarebbe stato usato per sistemare la contabilità interna alle imprese, riacquistando pacchetti azionari e spostando di nuovo il domicilio fiscale all’interno dei confini statunitensi, seguendo la tassazione favorevole, senza però creare molti posti di lavoro. Anche secondo la National Association of Business Economics, uno dei principali forum accademici sull’economia, gli investimenti sono stati minori del previsto: l’84% delle imprese afferma di non aver cambiato i programmi a lungo termine nonostante il taglio. Diverso lo scenario però se si chiede solo alle aziende manifatturiere: ben il 50% segnala maggior investimenti e assunzioni negli Stati Uniti grazie all’abbassamento delle tasse.