Entrare in Europa. Lo sognano i manifestanti nelle piazze di Kiev, ma per altri Paesi è una prospettiva molto più concreta. Ad oggi sono cinque quelli che hanno lo status di Paese candidato, ovvero quelli che hanno presentato e ottenuto l’approvazione della domanda di adesione: Serbia, Montenegro, l’Ex Repubblicia yugoslava di Macedonia, Turchia e Islanda. A vent’anni dai criteri di Copenaghen, che fissano le condizioni di Bruxelles per l’ingresso in Europa, ecco a che punto sono i negoziati.
Secondo il professore di Governance dell’Unione Europea dell’Università di Milano, Fabio Franchino, “Montenegro, Macedonia e Serbia hanno le motivazioni più radicate a fare parte dell’Europa”. Oramai circondati da Paesi dell’Unione, relativamente poveri e di recente transizione alla democrazia, avrebbero soprattutto grande vantaggio economico a legarsi a Bruxelles nella misura in cui alle imprese nazionali si aprirebbe l’intero mercato europeo, senza dazi e altre barriere all’entrata, con in aggiunta la possibilità di partecipare alla regolamentazione del mercato stesso e a beneficiare dei fondi strutturali.
A novembre, un report della Commissione al Parlamento Europeo sull’argomento ha evidenziato alcuni punti critici che impediscono l’accettazione del processo di adesione. Il Montenegro ad esempio, che in questi anni si è impegnato molto sul fronte dell’economia e al contrario dell’Italia ha concluso quest’anno la sua fase recessiva, è ancora lontano dall’essere un Paese veramente democratico. Secondo la Commissione deve riordinare la pubblica amministrazione e rendere il processo elettorale e le istituzioni più credibili agli occhi dei cittadini. Soprattutto, deve tutelare meglio la libertà di espressione, indagando attentamente tutti i casi di violenze e minacce contro i giornalisti e perseguendo i responsabili. A Marzo lo stesso presidente della Commissione Barroso aveva denunciato le violenze a una giornalista a Podgorica. Sul fronte dei diritti umani il Montenegro condivide una serie di criticità con la Serbia, che pure ad aprile ha firmato uno storico accordo col Kosovo e grazie ad esso si è guadagnata la possibilità di adesione Ue. Per Bruxelles, Belgrado deve non solo impegnarsi contro le discriminazioni di minoranze come i rom, ma anche nella tutela di gruppi vulnerabili come la comunità LGBT. Il primo gay pride, dopo tre anni di assenza, si è tenuto a settembre senza il consenso delle autorità.
Altri problemi ha invece l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Il proprio nome, ad esempio. La Grecia infatti contesta la candidatura al Paese che si chiama come una sua storica regione e i dirigenti greci hanno più volte dichiarato che porranno il veto fino a quando la disputa nominale non sarà risolta, nonostante secondo la Commissione Skopje adempia ai requisiti per l’integrazione qualche anno. Atene, d’altra parte, rappresenta uno snodo fondamentale per i Balcani: se da un lato col summit di Salonicco del 2003, è stata uno dei principali sponsor dell’allargamento ai Balcani, il suo default ha acuito le paure di Bruxelles di portarsi in casa tanti altri Paesi a rischio.
A differenza dei Paesi dei Balcani occidentali, la Turchia (dopo l’Islanda) è il Paese candidato che può vantare l’economia più dinamica e competitiva. “Piccola Cina”, la chiamano. L’economia turca è, infatti, una delle più importanti (e sottovalutate) in Europa e oltreoceano. Migliaia le imprese europee aperte in Turchia e altrettante quelle turche che rientrano nelle filiere produttive dei Paesi dell’Unione. Con il gasdotto Nabucco, inoltre, il Paese di Erdogan è diventato il corridoio energetico principale per portare in Europa idrocarburi dall’Asia per scaldare le case e far funzionare le industrie degli europei, evitando il passaggio da Russia e Iran. La stessa Unione europea nel report la giudica un “partner geopolitico strategico” e sottolinea l’ “importanza della cooperazione in corso sulle questioni di politica estera”.
Secondo Bruxelles, importanti passi in avanti sono stati fatti nell’ultimo anno soprattutto sul fronte delle riforme. Bene la ratifica dell’accordo per il gasdotto e il pacchetto di riforme della giustizia, volto a garantire una maggiore tutela dei diritti fondamentali e a potenziare la lotta all’impunità, specie nei casi di tortura e maltrattamenti. Promosso anche l’impegno dimostrato da Ankara verso la risoluzione della questione curda e l’assistenza umanitaria “vitale” prestata ai numerosissimi profughi siriani. Gli episodi della scorsa primavera, tuttavia, le proteste di Gezi Park, la dura repressione della polizia e l’assenza di dialogo con i manifestati hanno suscitato a Bruxelles “seria preoccupazione”. Il Paese della mezzaluna dovrà ora, secondo l’Unione, passare dalla teoria alla pratica e dimostrare che l’impegno verso il rispetto dei diritti fondamentali non rimarrà solo sancito su carta.
Caso a sé, quello dell’Islanda, l’unico Paese candidato che ha sospeso a tempo indeterminato le trattative per l’ingresso nell’Ue. “A parte il periodo di crisi che ha passato, per l’Islanda non ci sono motivazioni forti (per entrare nell’Unione, ndr). È un paese relativamente ricco, periferico e di consolidata democrazia”, spiega il prof. Franchino. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee si è concretizzato il 12 settembre, a cinque mesi dalla salita al governo del partito euroscettico di centro-destra.
I negoziati non erano mai stati facili: c’erano alcune questioni spinose sulle quali Reykjavík avrebbe dovuto fare delle concessioni a Bruxelles. Tutti punti su cui gli islandesi non erano più disposti a negoziare. O almeno non dopo la crisi economica del 2008. Prime fra tutte, le regole su pesca e agricoltura due settori fondamentali per l’economia dell’isola, già oggetto di una strenua difesa da parte del governo islandese durante le cosiddette tre “guerre del merluzzo” con la vicina Gran Bretagna, negli anni ‘70. Il congelamento delle trattative da parte di Reykjavík avviene proprio mentre “il profilo geostrategico dell’isola aumenta”, come spiega il prof. Luca Bellocchio, ricercatore di Scienza Politica all’Università Statale di Milano, “Soprattutto a causa delle recenti scoperte di giacimenti di risorse nella vicina Groenlandia, che fanno gola a tutto il mondo. L’Islanda ha aperto il suo primo consolato proprio lì”. Anche Mosca e Pechino guardano con interesse all’isola del profondo Nord: “La Cina ha stipulato un trattato di libero scambio con Reykjavík”, spiega Bellocchio, “e sono sicuro che la Russia replicando quanto fatto nel 1953, annuncerà tra poco un viaggio in Islanda”.
Eva Alberti
Stefania Cicco