Da giugno 2012 vive nell’ex bagno femminile al piano terra dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, trasformato in mini appartamento. Ma dopo due anni Julian Assange non ce la fa più e si appella all’Onu: «Sono arbitrariamente detenuto». Infatti, sulla testa del fondatore di Wikileaks pende un mandato di cattura internazionale: se l’australiano lascia l’ambasciata sarà arrestato dalla polizia inglese. Dal 2014 il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria sta indagando per stabilire se i tre anni passati da Assange nella ambasciata dell’Ecuador a Londra possano essere considerati alla stregua di una detenzione illegale. Il responso verrà ufficialmente annunciato venerdì 5 febbraio. Ma giovedì la Bbc ha anticipato che l’Onu ha deciso di riconoscere le ragioni del fondatore di Wikileaks.
Il giorno prima del verdetto, l’autore di Wikileaks ha scritto sul suo account Twitter: «Se domani l’Onu annuncerà che ho perso la causa contro la Gran Bretagna e la Svezia, uscirò dall’ambasciata venerdì a mezzogiorno e mi farò arrestare dalla polizia inglese».
«D’altro canto, se dovessi vincere e dimostrare che i due Stati hanno agito contro la legge, mi aspetto l’immediata restituzione del mio passaporto e la fine di ulteriori tentativi di arrestarmi», conclude Assange nel tweet. Tuttavia, se anche l’anticipazione della Bbc fosse confermata, la decisione dell’Onu non sarà vincolante né per le autorità britanniche né per quelle svedesi. Il Foreign Office britannico ha detto alla Bbc di avere ancora l’obbligo di estradare Assange.
La vicenda del 44enne australiano è cominciata nel 2010 quando attraverso Wikileaks, l’organizzazione internazionale da lui fondata, aveva diffuso su internet decine di migliaia di documenti americani top secret. Poco dopo venne fermato a Londra sulla base di un mandato di arresto internazionale emesso dalla Svezia con l’accusa di stupro. Quando la Suprema Corte britannica giudicò in favore della sua estradizione per la Svezia, Assange, che ha sempre respinto l’accusa e che era in libertà su cauzione, si è rifugiato nell’ambasciata di Quinto. Lì ha chiesto asilo politico. Temeva che se fosse stato portato in Svezia Washington avrebbe cercato di estradarlo negli Stati Uniti e processarlo per Wikileaks.
Alessia Albertin