È stata scritta due anni e mezzo fa ma sembra la cronaca di quanto succede a Jenin dal 26 gennaio scorso. La quarta stagione di Fauda, la serie Netflix sul conflitto israelo-palestinese è ambientata nel campo profughi della Cisgiordania e racconta un’operazione militare molto simile a quella che ha portato al massacro di dieci guerriglieri palestinesi . Concepita da due ex agenti delle Forze di difesa israeliana (Idf), la serie è stata definita “iperrealista”, perché traduce in fiction fatti più che verosimili.

La serie – Ha come slogan «Le storie umane su entrambi i lati del conflitto israelo-palestinese» e il suo titolo, Fauda, è stato tradotto come “caos” ed è il grido che gli agenti israeliani sotto copertura lanciano per segnalare di essere stati scoperti e che la situazione sta precipitando. A idearla sono stati Avi Issacharoff e Lior Raz, due ex militari sotto copertura arruolati nell’antiterrorismo dell’Intelligence di Tel Aviv. Nella sceneggiatura ricostruiscono le dinamiche degli attacchi armati condotti in incognito nei territori palestinesi che entrambi hanno vissuto in prima persona. Ma soprattutto raccontano alcune delle logiche culturali di un conflitto che dura dagli inizi del Novecento. La serie ha riscosso pareri divisivi. Sebbene si professi imparziale, è stata giudicata il prodotto di una parte, ossia vicina al Mossad, la principale agenzia di intelligence dello stato ebraiaco. L’opinionista palestinese George Zeidan in un articolo su Haaretz, sito di notizie su Israele e Medio Oriente,  l’ha definita addirittura “istigazione anti-palestinese” . Al centro delle azioni raccontate della fiction ci sono innanzitutto gli agenti scelti dell’unità speciale antiterrorismo, uno dei quali interpretato da Lior Raz, nel film Doron Kabilyo, che conoscono perfettamente lingua e cultura palestinese pur essendo israeliani e devono fare i conti con la difficoltà di gestire un conflitto eterno che miete vittime tra i civili.

L’intervista – Raggiunto a Tel Aviv da La Stampa, lo sceneggiatore ed ex agente Issacharoff ha spiegato che non si è trattato di particolare preveggenza da parte degli autori della serie, ma che l’assalto a Jenin era nell’aria da tempo. «Il campo profughi della città è un centro di caos locale rispetto ad altri luoghi della Cisgiordania, come Hebron, dove ancora resiste almeno la disciplina dei clan» ha detto al quotidiano piemontese. Proprio l’abbandono da parte delle autorità palestinesi secondo l’ex agente Idf avrebbe fatto maturare un clima di allerta terroristica: «Sapevamo che Jenin stava diventando un covo di militanti», spiega. A dover essere monitorato adesso è secondo lui lo spirito con cui i giovani palestinesi stanno affrontando il conflitto, dimostrato con forza dagli stessi attacchi a Jenin: «Centinaia se non migliaia di giovani non temono le conseguenze, anche mortali, dello scontro con Israele» fa notare.

I fatti – Giovedì 26 gennaio le forze armate di Israele hanno sferrato un attacco al campo profughi di Jenin, località della Cisgiordania monitorata dal Mossad per il rischio di radicalizzazioni e atti terroristici contro Israele. La dinamica dei fatti non è stata del tutto chiarita. Le ricostruzioni parlano di un primo intervento avviato per «fermare un attacco terroristico imminente della Jihad islamica». Contro i presunti terroristi sarebbe stata usata la tecnica della “pentola a pressione“: piccole esplosioni che avrebbero costretto i sospettati a uscire allo scoperto. Nel corso delle operazioni però i palestinesi avrebbero reagito e il conflitto avrebbe preso una piega più ampia, con la morte di dieci persone. Non solo militanti: ha perso la vita anche una donna di 60 anni e almeno venti persone sono state ferite, tra cui un bambino. A essere coinvolto negli scontri è stato anche un ospedale pediatrico, evacuato perché colpito da gas lacrimogeni. Il presidente palestinese Abu Mazen ha paragonato l’operazione a un «massacro» denunciando il «silenzio internazionale». Nello stesso campo profughi di Jenin bombardato da Israele lo scorso maggio è stata uccisa la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, che stava documentando un’operazione militare isrealiana. La responsabilità di quell’omicidio non è mai stata chiarita, ma l’emittente ha presentato una denuncia al tribunale dell’Aia nella convinzione che a spararle sia stato un soldato israeliano.