Non è stato genocidio. È netta la posizione del Governo golpista del Myanmar sul caso delle repressioni compiute, a partire dal 2017, nei confronti dei Rohingya, la minoranza musulmana che vive nella zona di confine con ill Bangladesh. Lunedì 21 febbraio si apre la contestazione preliminare presso la Corte penale internazionale, il procedimento dovrebbe durare l’intera settimana e i rappresentanti del Governo che si è formato a seguito del colpo di stato militare del febbraio 2021, esporranno la loro linea difensiva.
Il governo “di unità nazionale,” composto dai membri del parlamento sciolto dai militari, ha dato il proprio via libera perché le procedure possano continuare senza contestazione. I rappresentanti del governo militare, che non dovrebbero avere titolo di essere riconosciuti dalle Nazioni Unite, verranno tuttavia ascoltati.

Lo snodo – Si tratta di un passaggio importante del caso sollevato davanti alla Corte dal Gambia con il sostegno dell’Organizzazione della cooperazione islamica dopo che più di 700mila civili musulmani, nel corso di 4 anni, hanno abbandonato il Paese, a msggioranza buddiosta, e cercato rifugio in Bangladesh per sfuggire alla violenta repressione delle truppe birmane. Numerosi report hanno documentato la distruzione di interi villaggi, dati alle fiamme, massacri, stupri di gruppo e altri abusi. Un’inchiesta delle Nazioni Unite ha riconosciuto “l’intento genocida” delle azioni militari e ha raccomandato l’apertura delle indagini nei confronti del comandante in capo Min Aung Hlaing e di altri cinque generali ritenuti responsabili delle violenze.

Il procedimento – Il Myanmar non ha reso pubbliche le obiezioni preliminari, ma esse non dovrebbero basarsi sul merito dei fatti contestati, bensì su problemi tecnici, di competenza e di giurisdizione, e sull’ammissibilità della domanda sollevata dal Gambia.
Entrambi i Paesi hanno aderito alla Convenzione sul Genocidio del 1948, e lo Stato africano, basandosi sulle prove raccolte dagli investigatori delle Nazioni Unite ritiene che il Myanmar abbia violato i principi della Carta. Ironia della sorte, la difesa della giunta dovrebbe fare ricorso anche sulle parole pronunciate davanti alla corte dall’ex Segretaria di Stato Aung San Suu Kyi, leader incarcerata dagli stessi militari.

 

Le parole di Aung – Nel 2019, il premio Nobel per la Pace definì la situazione “complessa” e chiamò “militanti” i militari che risposero con la violenza alle proteste dei Rohingya, aggiungendo che il Myanmar aveva aperto un’indagine “per fare luce sul caso delle repressioni e punire i responsabili delle violenze”. “Può esserci un intento genocida da parte di uno Stato che indaga attivamente, persegue e punisce soldati e ufficiali accusati di non aver rispettato le regole?”, chiese l’allora leader politica, scioccando molti attivisti per i diritti umani che l’accusarono di voler coprire i crimini dell’esercito.

La crisi del 2017 – L’esodo Rohingya inizia il 25 agosto del 2017, dopo che l’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) lancia una serie di attacchi a circa 30 stazioni di polizia. L’esercito del Myanmar risponde, la repressione è durissima e il mondo se ne accorge solo con l’arrivo dei primi profughi nel confinante Bangladesh. Le testimonianze confermano l’allarme delle Ong. Per Medici Senza Frontiere, nei mesi delle violenze le vittime sono almeno 6700, di cui 730 bambini. Il governo birmano minimizza: meno di 400.
Le zone del conflitto sono off-limits per la stampa internazionale e solo grazie ai satelliti sarà possibile stimare l’entità della repressione. Nelle fotografie si contano 288 villaggi parzialmente distrutti o completamente bruciati e le zone più colpite sono la parte nord dello Stato di Rakhine. Le immagini dall’alto suggeriscono anche che la distruzione è stata mirata: i villaggi Rohingya appaiono come cumuli di macerie, quelli di etnia Rakhine, invece, restano intatti. Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres definisce i Rohingya: “uno dei, se non il, popolo più discriminato al mondo”.