Su Riodoce, il settimanale che aveva fondato, firmava la rubrica «Malyerba», erba cattiva. Quella del narcotraffico e del crimine organizzato. Javier Valdez Cárdena conosceva tutto. Ogni dettaglio del giro di affari dei narcos, dei loro rapporti con la politica e il mondo imprenditoriale. E prima di ogni cosa, era a conoscenza dei movimenti del cartello di Sinaloa, tra i più grandi cartelli del narcotraffico, con capitali da oltre tre miliardi dollari. Il 15 maggio a Culiaca, la capitale dello Stato che aveva passato al setaccio con le sue inchieste, Cárdena è stato assassinato. Il killer l’ha raggiunto appena uscito dalla redazione, mentre si avvicinava alla macchina, e ha sparato otto colpi. Il corpo è rimasto a terra, il volto coperto dal cappello di paglia che non dimenticava mai di indossare. Sull’asfalto i segni gialli che indicano i bossoli della pistola. Una scena ormai abituale in Messico, dove di giornalismo si muore più che altrove.

 

Cronista da sempre – Nato a Culiacan il 14 aprile 1967, Cárdena inizia la carriera giornalistica dopo gli studi in sociologia. Il primo passo in una redazione lo fa in una televisione locale, Canal 3. Si specializza in reportage di inchiesta sulla criminalità organizzata, sui rapporti tra i narcos e le sfere del mondo imprenditoriale. A Culiacan fonda la rivista Riodoce e lavora come corrispondente del quotidiano messicano La Jornada. Non lascerà mai la città, l’ex feudo del chapo Guzman, neanche nei momenti più drammatici della guerra tra mafie. Per il suo lavoro sul campo, nel 2011 vince il premio Libertà di Stampa del Comitato per la protezione dei giornalisti e, insieme alla squadra di Riodoce, il Maria Moors Cabot. Alle spalle tanti libri sul narcotraffico, come Miss Narco, pubblicato nel 2009, e Narcoperiodismo, il suo ultimo lavoro. Cárdena non ha mai smesso di scrivere nonostante le intimidazioni. «Vivere a Sinaloa è una minaccia. Ed essere giornalista è una minaccia ancora più grave», ripeteva. Senza dimenticare di aggiungere che per un giornalista il silenzio non è ammesso.

Non è un Paese per giornalisti – Il Messico è tra i Paesi più pericolosi al mondo per la stampa. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, nel 2016 sono stati uccisi almeno 11 giornalisti. Stando alle denunce dell’ong, non è garantita un’adeguata protezione. Minacce, aggressioni, sequestri e intimidazioni contro gli operatori dell’informazione sono quotidiane, così come sono frequenti le campagne denigratorie. A luglio 2016 Humberto Moreira Valdés, ex governatore dello stato di Coahuila ed ex presidente del Partito rivoluzionario istituzionale, aveva intentato contro il giornalista Sergio Aguayo una causa civile per 550.000 dollari, con l’accusa di danno morale alla sua reputazione in relazione alla pubblicazione di un editoriale. Un esempio, e non l’unico, di intimidazione e controllo del dibattito pubblico. Le limitazioni della libertà di stampa in Messico sono confermate dall’ultima pubblicazione di Reporter Sans Frontieres, che posiziona il paese al 147eismo posto su una scala mondiale.