Definito «il peggior segretario alla Difesa di tutti i tempi», non ha vissuto abbastanza per vedere la fine della guerra più lunga della storia americana, iniziata quando c’era lui al Pentagono. Donald Rumsfeld, uno degli architetti delle invasioni di Afghanistan e Iraq, è morto il 30 giugno 2021 a Taos in New Mexico, per mieloma multiplo. Teorico della guerra preventiva, protagonista della politica repubblicana per quarant’anni, Rumsfeld è stato spesso paragonato a Robert McNamara, che sedette al Pentagono negli anni della guerra in Vietnam. Ma a differenza di McNamara, non ha mai espresso alcun dubbio sui conflitti iniziati durante il suo mandato.

Gli inizi – Nato a Chicago nel 1932 e laureato a Princeton, Donald Rumsfeld fu eletto per la prima volta al Congresso nel 1962. Vi rimase per sette anni, prima di andare a lavorare nella Casa Bianca di Richard Nixon (che una volta lo definì «un piccolo bastardo spietato»). Allontanato da Washington nel 1973, quando venne nominato ambasciatore Usa presso la Nato, vi fece ritorno dopo il Watergate, diventando prima il capo di gabinetto di Gerard Ford nel 1974 e poi il più giovane segretario alla Difesa della storia americana nel 1975.

Rumsfeld durante il primo mandato al Pentagono (Wikimedia Commons)

La stretta di mano con Saddam – Ritiratosi dalla politica dopo la sconfitta di Ford alle elezioni del 1976, negli anni successivi Rumsfeld ha lavorato per varie aziende private. Nel 1983 fu nominato da Ronald Reagan come inviato speciale in Medio Oriente: risale a quell’anno la sua stretta di mano con Saddam Hussein, all’epoca impegnato nel conflitto contro l’Iran e alleato degli Stati Uniti. Un’immagine che sarà più volte riproposta nei mesi precedenti all’invasione dell’Iraq.

Il ritorno al Pentagono – Nel 2000, il 68enne Rumsfeld non era una scelta naturale per il Pentagono, e non solo per l’età. Fra “Rummy” e il padre del neoeletto presidente, George H. W. Bush, non correva buon sangue. Ma nel periodo di transizione dopo la contestata elezione del 2000, mentre si faticava a trovare un candidato adatto per guidare il dipartimento della Difesa, “Dubya” decise infine di nominarlo, su spinta anche del vicepresidente eletto Dick Cheney, che di Rumsfeld era stato un protégé. Dopo essere stato il più giovane segretario di sempre nel suo primo mandato, Rumsfeld tornò al Pentagono come il più vecchio di sempre e con il compito di sfoltire l’elefantiaca macchina burocratica dell’esercito americano e di tagliarne il budget. Decisionista e irascibile, era solito comunicare con i suoi sottoposti attraverso brevi appunti, soprannominati snowflakes, fiocchi di neve, per la frequenza con cui venivano inviati, e  lavorava alla scrivania stando in piedi.

La stretta di mano con Saddam nel 1983 (Wikimedia Commons)

L’11 settembre e la War on Terror – «Sherman ha notoriamente commentato che la guerra è un inferno. Quel giorno l’inferno calò sul Pentagono». Nella sua autobiografia, Rumsfeld ricorda così la mattina degli attentati dell’11 settembre: anche il quartier generale del Dipartimento della difesa fu colpito da un attacco aereo. Il segretario, che stava guardando le immagini delle Torri Gemelle alla tv, sentì le pareti tremare e corse sul luogo dello schianto, per cercare di aiutare con i soccorsi. Nelle ore successive, Rumsfeld iniziò subito ad individuare obiettivi per la controffensiva americana: «Colpire S.H. (Saddam Hussein, ndr) allo stesso tempo – non solo UBL (Osama bin Laden, ndr)», si legge in un suo appunto di quel giorno. Nell’immediato, Bush scelse di bombardare Al Qaeda in Afghanistan, ma Rumsfeld divenne presto uno dei maggiori sponsor dell’invasione dell’Iraq, nonostante l’intelligence avesse escluso qualsiasi ruolo di Saddam negli attentati dell’11 settembre. Per quanto a conoscenza del fatto che non c’era nessuna certezza sul possesso di armi di distruzione di massa (mai trovate) da parte del dittatore iracheno, nelle sue frequenti conferenze stampa Rumsfeld continuò a sostenere la necessità di neutralizzare Saddam.

La copertina dell’Economist (Wikimedia Commons)

Abu Ghraib e la perdita di popolarità – Ma fu proprio la gestione della guerra in Iraq a decretare la fine della lunga carriera di Rumsfeld. Quella che doveva essere un’operazione veloce di regime change, che il segretario era determinato a portare a termine con il minimo impegno di uomini e risorse da parte del Governo americano, si trasformò presto in un conflitto logorante, con centinaia di migliaia di vittime irachene e sempre meno popolare nell’opinione pubblica. A questo si aggiunse anche lo scandalo delle torture ad Abu Ghraib, che portarono l’Economist a chiedere le sue dimissioni in una copertina del 2004. Sarà però solo la sconfitta dei Repubblicani alle elezioni di medio termine del 2006 a convincere Bush ad abbandonarlo e a sostituirlo con Robert Gates. L’ex-presidente ha accolto la notizia della sua morte affermando che «l’America è un posto migliore e più sicuro grazie al suo servizio».