Diciassette uomini e solo cinque donne. Molte conferme – su tutti George Osborne al tesoro – e alcune sorprese. Come Penny Mordaunt, la prima donna a ricoprire il ruolo di ministro delle Forze Armate nella storia del Regno Unito. La squadra di governo di David Cameron, che si è riunita per la prima volta martedì 12 maggio a soli cinque giorni dalle elezioni, è un monocolore conservatore. E non poteva essere altrimenti, vista la larga vittoria ottenuta dai Tories giovedì 7 nel voto annunciato come il più incerto degli ultimi decenni e rivelatosi invece un trionfo per Cameron e compagni.
Un nuovo “hung parliament”, un parlamento senza una maggioranza chiara e con la necessità di replicare un governo di coalizione, come quello che nel 2010 aveva portato per la prima volta Cameron a Downing Street in tandem con il libdem Nick Clegg. Questo era lo spauracchio che aleggiava su Londra e che i sondaggisti continuavano ad alimentare. E invece, a poche ore dalla chiusura dei seggi, i primi exit-poll davano già i conservatori in ampio vantaggio: 315 seggi contro i 239 dei laburisti di Ed Miliband. Il divario alla fine dello spoglio sarà ancora più largo: con 331 parlamentari i Tories possono contare su un margine di sicurezza di sette seggi. Una disfatta, quella del Labour Party, di cui “Red” Ed Miliband si è subito assunto piena responsabilità, rassegnando le dimissioni. Con lui hanno abbandonato la leadership dei rispettivi partiti anche Nigel Farage, l’euroscettico dell’Ukip che nonostante i 4 milioni di voti non è riuscito a conquistare nemmeno il proprio seggio e si è dovuto accontentare di un solo deputato, e lo stesso Nick Clegg, che ha pagato lo scotto di cinque anni al governo. Ben 49 i seggi persi dai LibDem. Tanti quanti ne ha guadagnati lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon, vera vincitrice insieme a Cameron di questa tornata elettorale.
E proprio con gli indipendentisti scozzesi dovrà fare i conti suo malgrado il premier appena riconfermato. Tanto che ha già annunciato di voler anticipare di un anno, al 2016, il referendum sull’uscita dall’Ue. La “Brexit”, cara all’ala destra del partito conservatore, potrebbe fungere da antidoto proprio alla spinta autonomista di Edimburgo. La Sturgeon, infatti, si è sempre detta una fervente europeista e, dopo la sconfitta al referendum per l’indipendenza del settembre scorso, un Regno Unito isolato da Bruxelles sarebbe un boccone davvero amaro da digerire per gli scozzesi. Non a caso la scelta per il ministero della Cultura è ricaduta su John Whittingdale, vera e propria bestia nera della Bbc, rea secondo la destra Tory di una linea editoriale troppo filo-europeista.
Non solo Europa, comunque. Se Cameron ha stravinto contro tutte le previsioni è soprattutto per i suoi successi in campo economico. Con la disoccupazione più bassa tra i 28 dell’Unione e una crescita che nel 2014 ha raggiunto il 2,4% il Regno Unito sembra essere uscito definitivamente dalla crisi. “Proseguiremo i nostri sforzi – ha promesso il primo ministro – per abbattere la disoccupazione e ampliare il bacino dei fruitori del welfare”. Intanto, mentre i laburisti si leccano le ferite, inizia ufficialmente la corsa al referendum. Tra un anno sapremo se l’Ue perderà un pezzo. E che pezzo.
Emiliano Mariotti