Un milione di neozelandesi parlerà la lingua maori entro il 2040. Il piano del governo kiwi, per ora rivolto a una conoscenza base della lingua originale dell’arcipelago, è stato lanciato durante il festival culturale maori Te Matatini. Dopo le esibizioni delle danze collettive tradizionali – le kapa haka – è stata inaugurata la “Maori Language Strategy”: laboratori regionali e lezioni in rete saranno allestiti per insegnare soprattutto ai giovani (in parallelo alle lezioni scolastiche obbligatorie entro il 2025) a controllare meglio te reo, letteralmente “la lingua”, che nel frattempo verrà diffusa a un pubblico sempre più ampio con una campagna marketing.
Identità collettiva – Il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern ha dichiarato l’importanza del «far sentire a proprio agio le persone parlando te reo Maori», tecnicamente una lingua ufficiale, spingendo su un obiettivo ambizioso: un quinto degli abitanti della nazione raggiungeranno il livello base di comunicazione nella lingua nativa entro vent’anni. Senza nascondere il suo stesso percorso linguistico e l’intenzione di far crescere la figlia Neve Te Aroha con le due lingue, spera di creare uno spazio pubblico di discussione e apprendimento senza imbarazzo nè pregiudizi. L’obiettivo di Ardern e del suo governo è accorciare sempre di più la distanza tra i 750mila maori dai restanti 4 milioni e 900mila kiwi, superando il vecchio stigma che la popolazione britannica rivolgeva alla lingua nativa. Il ministro dello Sviluppo Maori Nanaia Mahuta si è congratulata con la decisione di assegnare alla protezione della lingua una parte significativa del budget annuale (che ammonterà a un totale di circa 35 milioni di dollari), apprezzando la rivalutazione dell’eredità linguistica Maori all’interno di Aotearoa, il nome con cui la popolazione nativa chiama l’isola del Nord della Nuova Zelanda: «La corona ha da tempo assunto questa responsabilità – ha detto ricordando il legame tra l’arcipelago e il Commonwealth – e ha dimostrato di considerare te reo un tesoro da condividere e proteggere». La lingua nativa di origine polinesiana non è sempre stata parlata con orgoglio: il suo recupero da parte delle generazioni più giovani, condiviso da altre nazioni colonizzate, risale agli anni ’70 e ha velocemente racimolato 150mila parlanti e un posto nella cultura pop locale. Un progresso che molti Paesi con una cultura locale ricca ma bistrattata osservano con attenzione, primo tra tutti il Canada.
Più di una ex-colonia – La protezione della lingua come espressione della cultura Maori – termine che si traduce con “normale” in contrapposizione agli invasori inglesi – risale formalmente alla stipula del Trattato di Waitangi. La pace bilingue firmata nel 1840 tra il rappresentante dell’Impero Britannico William Hobson e circa 40 capi delle tribù del Nord aveva sancito la nascita di una monarchia facente capo alla regina e a un parlamento locale, struttura vigente ancora oggi. Teoricamente il Trattato attribuiva ai maori lo status giuridico di cittadini britannici e lasciava loro il controllo formale dei territori delle isole. In realtà la cattiva traduzione dei concetti da una lingua all’altra – per alcuni un difetto inevitabile, per altri un’ambiguità di cui approfittare – aveva fatto sì che il contratto nascondesse maggiori cessioni in termini di sovranità e controllo di quelle lasciate intendere ai capi tribù (fatto che ha portato alle “guerre maori” della fine dell’800). Nonostante le premesse, i legami tra la corona e il governo locale sono in fase di progressiva riabilitazione grazie all’applicazione del significato più onesto del Trattato: una vera parità. L’identità della Nuova Zelanda, molto più della vicina Australia (che ha riconosciuto le atrocità compiute contro gli aborigeni solo nel 2008), aspira a diventare un connubio fluido tra tradizione nativa e post-coloniale.