«The ship has reached the shore [la nave ha raggiunto la riva]», annuncia commuovendosi Rena Lee, presidente della conferenza dell’Onu in cui i Paesi membri hanno trovato un accordo internazionale per la protezione degli oceani dopo oltre dieci anni di negoziati. Per il nuovo trattato sono state necessarie due settimane di colloqui. L’accordo è stato raggiunto soprattutto grazie alla mediazione di Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito e Cina, che si sono impegnate per trovare compromessi con quei Paesi che, avendo le economie più deboli, chiedevano rassicurazioni affinché tutti potessero beneficiare in maniera equa degli accordi.

Le misure – Si chiama Trattato d’alto mare. Il suo obiettivo è rendere aree protette il 30 per cento delle acque in mare aperto entro il 2030. L’accordo punta a tutelare le specie marine a rischio attraverso una serie di politiche. Nelle aree protette stabilite dal nuovo accordo vengano fissati limiti alla pesca, alle zone in cui possono transitare le navi e alle attività di esplorazione che vi si possono svolgere, come l’estrazione dei minerali dai fondali oceanici. Nel Trattato d’alto mare si prevede anche l’istituzione di una conferenza (Cop) che si riunirà periodicamente per discutere delle questioni che hanno a che fare con gli oceani.

Perché è importante – Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha dichiarato che il trattato è fondamentale per affrontare la triplice crisi planetaria del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’inquinamento. Gli ecosistemi marini funzionano come dei termostati: le lentissime circolazioni oceaniche muovono calore, anidride carbonica, ossigeno e nutrienti. La conoscenza relativa a questi ambienti è ancora scarsa: secondo i dati della Nasa, più dell’80 per cento degli oceani non è ancora stato mappato, osservato, ed esplorato. Il nuovo trattato favorirà anche la ricerca di base. Il Trattato d’alto mare, oltre a tutelare le acque profonde, consentirà di raggiungere anche gli altri obiettivi dell’Agenda 2030 e dell’accordo sulla biodiversità firmato alla Cop 15.

Costa sudafricana della False Bay,sull’oceano Atlantico (foto di Novella Gianfranceschi)

Perché c’è voluto tanto – Il precedente accordo internazionale relativo alla protezione degli oceani era la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare del 1982. La Convenzione stabiliva la libertà dell’alto mare a tutti gli Stati: oltre le 200 miglia dalla piattaforma continentale dalle coste era concessa la navigazione e il sorvolo, la posa di cavi sottomarini e condotte, la costruzione di isole artificiali e altre installazioni, la pesca e la ricerca scientifica. Uno dei principali punti di discussione dei negoziati di New York ha riguardato lo sfruttamento del materiale genetico di piante e animali che vivono in mare aperto, che può essere usato per la produzione di farmaci, cibo, e per alcuni processi industriali. Mentre i Paesi più ricchi hanno le risorse economiche e le tecnologie per esplorare le acque oceaniche e i fondali marini anche per questi scopi, quelli con le economie più deboli chiedevano che con questi accordi si cercasse di dare le stesse possibilità anche a loro.

Cosa cambia – Il testo non è ancora formalmente adottato dai Paesi aderenti che dovranno riunirsi nuovamente per farlo e per decidere le modalità con cui implementarlo. L’Unione europea si è impegnata a investire 40 milioni di euro affinché l’accordo venga ratificato e applicato dagli Stati aderenti. «L’oceano è cibo, energia, vita. Ha dato così tanto all’umanità: è tempo di restituire» ha scritto su Twitter Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, «accolgo con favore l’accordo sull’alto mare. Ce l’abbiamo fatta!»