«Il futuro del Myanmar dev’essere la pace. Una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune». Non ha pronunciato la parola tabù – Rohingya – Papa Francesco durante la sua visita nella capitale del Myanmar Nay Pyi Taw. Ma non ha rinunciato a toccare il nervo scoperto della politica dell’ex-Birmania. In un atteso incontro con Aung San Suu Kyi, la già premio Nobel finita nell’occhio del ciclone per il suo silenzio sul dramma dei Rohingya, il capo della Chiesa Cattolica ha fatto sentire la sua voce su uno delle crisi umanitarie più mediatiche degli ultimi anni. E ha iniziato a tessere una tela diplomatica che dovrebbe accorciare le distanze tra Roma e l’Asia. Il sogno è di aprire le porte della Cina.
L’incontro con i generali – «Non c’è persecuzione religiosa né discriminazione religiosa» in Myanmar, aveva fatto sapere poche ore prima tramite Facebook il generale Min Aung Hlaing, comandante delle Forze dell’ordine dell’ex Birmania. Un messaggio di cui aveva tentato di convincere anche il pontefice, in visita nell’ex colonia britannica da lunedì 27 novembre. Salutati i generali birmani e incontrata la comunità di fedeli cristiani di Yangon, il Pontefice era volato nella nuova capitale Nay Pyi Taw per incontrare le massime autorità del Paese e pronunciare un discorso molto atteso. Sotto i riflettori internazionali, puntati sulle attese parole che il Papa avrebbe speso sulla crisi umanitaria dei Rohingya, Francesco ha incontrato il presidente della Repubblica del Myanmar, Htin Kyaw, e la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi. Un tempo osannata dalla stampa liberal, San Suu Kyi è ora sotto accusa perché sarebbe complice silenziosa del dramma umanitario del popolo dei Rohingya.
Il tabù dei Rohingya – Abitanti del lembo più ad Ovest del Myanmar, i Rohingya sono un popolo di religione islamica in un Paese a maggioranza buddhista. Nonostante lo stato birmano riconosca al suo interno 135 etnie ufficiali, i Rohingya non solo non sono riconosciuti, ma sono stati discriminati per la loro diversità religiosa e linguistica. Dopo una situazione di conflitto latente durato per decenni, lo scontro con la capitale è esploso e rimbalzato su tutti i media internazionali nell’agosto 2017, quando la crisi dei Rohingya è sfociata in un vero e proprio esodo di massa verso il Bangladesh. Considerata un’eroina dei diritti umani per aver portato avanti la causa del suo popolo, Aung San Suu Kyi è stata accusa di aver colpevolmente taciuto le violazioni dei diritti di questa parte della popolazione birmana.
Una road map verso la Cina – Partito da Roma lunedì 27 novembre, Papa Francesco è impegnato in una missione pastorale in Asia che potrebbe servire a gettare le basi di una road map verso la conquista della Cina. Attesissimo per il ruolo diplomatico che potrebbe svolgere nella crisi birmana, il Pontefice volerà in Bangladesh giovedì 30 novembre e tornerà in Vaticano sabato 2 dicembre. Se riuscirà nell’impresa diplomatica, potrebbe spianare la strada al sogno di arrivare nella – finora impenetrabile – Cina. Continente in cui i cristiani costituiscono una esigua minoranza numerica, l’Asia potrebbe essere una meta sempre più frequente delle visite del capo di Santa Romana Chiesa.
Mentre mi preparo a visitare il Myanmar e il Bangladesh, desidero inviare una parola di saluto e di amicizia ai loro popoli. Non vedo l’ora di potervi incontrare!
— Papa Francesco (@Pontifex_it) 25 novembre 2017