«Anche se sono sola, dirò la verità su di te», aveva scritto la campionessa di tennis cinese Peng Shuai in un post social riferendosi agli abusi sessuali che avrebbe subito da parte dell’ex vicepremier Zhang Gaoli. Ora, la sua scomparsa fa temere il peggio: il mondo intero si sta chiedendo «Dov’è Peng Shuai?» – #WhereIsPengShuai ­è l’hashtag che sta facendo il giro dei social – e la domanda rischia di rimanere senza risposte. Quella di Peng Shuai solo l’ultima delle decine di violenze e molestie denunciate sotto la spinta del #Woyeshi, il #MeToo cinese. Da quella a carico dell’anchorman Zhu Jun al presunto stupro che una dipendente di Alibaba avrebbe subito dal suo capo: sono diversi gli episodi in cui le accuse mosse dalle donne si sono risolte nell’assoluzione degli accusati. Secondo le attiviste cinesi l’ostacolo maggiore sarebbe costituito dalla richiesta di prove schiaccianti a sostegno dell’accusa, un requisito spesso difficile da soddisfare.

«Dov’è Peng Shuai?» – La 35enne, nel 2014 numero uno della classifica mondiale di doppio femminile, dopo aver vinto a Wimbledon e Parigi, lo scorso 2 novembre aveva pubblicato le accuse dal suo account ufficiale di Weibo (il Twitter cinese). Nel post la campionessa scriveva chiaramente di essere stata costretta dall’ex membro del Comitato Permanente del Politburo comunista ad avere rapporti sessuali. Gli abusi risalirebbero a tre anni fa, quando Gaoli, oggi 75enne in pensione, era ancora vicepremier. Nell’arco di un paio di giorni la censura cinese ha bloccato ogni ricerca legata ai nomi della giocatrice e del politico – perfino la parola “tennis”, “wangqiu” in mandarino, è scomparsa dal web per qualche ora -, oltre a eliminare il post. Ma alcuni utenti avevano fatto in tempo a salvarlo. Sugli screenshot messi in rete si legge che la stessa Peng era consapevole di rischiare molto anche perché le sue accuse non erano verificate né verificabili per mancanza di prove. La Wta (Women’s Tennis Association) ha chiesto un’inchiesta sul caso e la fine della censura.

Assoluzione – L’insufficienza di prove è d’altronde il motivo che ha portato, lo scorso 14 settembre, il tribunale di Haidian (Pechino) ad assolvere il giornalista e anchorman Zhu Jun, accusato nel 2018 da Zhaou Xiaoxuan di molestie sessuali. Nei tre anni di battaglia legale, la ragazza era divenuta il volto del movimento.

Il rischio dell’accusa di “calunnia” – Un altro duro colpo è stato assestato al #Metoo cinese nell’ambito della vicenda che la scorsa estate aveva portato al licenziamento di un manager Alibaba – il colosso del mercato online – accusato di abusi sessuali da una sua dipendente. Ai primi di settembre un tribunale nella provincia nordest dello Shandong ha archiviato il caso con il proscioglimento dell’uomo e una querela contro la stessa donna per calunnia, falsa accusa e atti osceni. Non si tratta di un’eccezione: secondo il Beijing Yuanzhong Gender Development Center, citato da Il Manifesto, tra il 2010 e il 2017 diciannove delle 39 cause per violenza sessuale sono state avviate dagli accusati, non dalle presunte vittime.

Il #Metoo cinese – Stando a quanto denunciato dalle attiviste, il #Woyeshi spaventerebbe le autorità cinesi perché le accuse rivolte agli uomini di potere rappresenterebbero una critica al sistema di valori alla base della stessa società. Già nel 2018 Leta Hong Fincher, esperta di movimenti femministi cinesi, spiegava al Guardian che le ragioni del silenzio – lo stesso che le attiviste stanno cercando di rompere – andrebbero ricercate nella composizione della classe dirigente cinese, sostanzialmente maschile. I leader del Partito Comunista Cinese già ai primi segnali dell’arrivo del movimento in Cina sarebbero stati «spaventati» dall’idea che alcuni membri di una élite «intoccabile» potessero essere travolti da un movimento come il #Metoo: «Non c’è dubbio che il movimento #Metoo – concludeva Fincher – è visto dalle autorità come una potenziale minaccia».