Pilar Selek aveva 27 anni quando è stata arrestata a Istanbul. Camminava per strada ed è stata fermata dalla polizia. Nella borsa aveva la trascrizione delle conversazioni con alcuni membri del Pkk, un progetto al quale stava lavorando. Le forze dell’ordine hanno requisito il materiale e hanno voluto sapere i nomi dei militanti del partito. Pinar si è rifiutata. Come sociologa, ha invocato il segreto professionale. Da qui, due anni e mezzo in carcere. La tortura. Poi l’esilio autoimposto in Europa.
Per lei l’accusa è stata affiliazione al terrorismo. Pinar è stata incolpata di essere l’artefice, insieme a un ragazzo kurdo, dell’attentato al mercato delle spezie di Instanbul che nel 1998 ha provocato sette morti e cento feriti. Ma l’attentato non c’è mai stato e una perizia del 2000 ha dimostrato che l’esplosione era dovuta a una fuga di gas. Eppure i processi sono continuati. Ce ne sono stati quattro e l’hanno sempre riconosciuta colpevole. Oggi Pinar, che vive in Francia ed è ricercatrice all’Ecole normale supérieure di Lione, è in attesa di una sentenza della Corte suprema turca che decida l’assoluzione o l’ergastolo.
Per tutto il tempo della carcerazione, la solidarietà nei suoi confronti non si è fermata. Da parte della popolazione e della stampa. In particolare della scrittrice Asli Erdogan, che sarebbe poi stata arrestata anche lei. «È una delle giornaliste che ha sempre scritto su di me. Veniva a trovarmi in prigione. Mi ha aiutato a riprendermi. A rialzarmi», racconta Selek. Prima del carcere, Pinar era conosciuta per le sue attività in città. Aveva lavorato con i bambini di strada, i transessuali, le prostitute. Uscita di prigione non è cambiata. Ha fondato l’Accademia delle donne di Amargi, un’associazione che lavora con le vittime di violenza. Ha pubblicato nel 2008 La mascolinità? Vita da cani, libro sulla costruzione della mascolinità attorno alle esperienze militari. Un romanzo che ha scandalizzato perché, per la prima volta, una voce femminile ha raccontato, e criticato, il mondo chiuso dell’esercito.
Pinar non è la sola intellettuale ad avere visto il carcere. Secondo quanto riportato dall’associazione Reporter senza frontiere, dopo il fallito golpe di luglio sono stati arrestati più di cento giornalisti. L’instaurazione dello stato d’emergenza, deciso dal presidente Erdogan, ha portato alla chiusura di giornali, radio, emittenti televisive. «La limitazione della libertà d’espressione non è una novità in Turchia. Io sono cresciuta leggendo scrittori, poeti, che erano in prigione. Nel paese per un intellettuale finire in cella è la normalità. Quasi come andare a scuola» – dice Pinar – «Ma negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando. Accanto al regime, ci sono forme di resistenza che vengono dall’arte e dalla letteratura. Bisogna parlarne. Servono a ricordare che le parole sono importanti. Che scrivere, creare, significa potere essere liberi».