Terza vittoria consecutiva, stavolta in Nevada. Un bacino di 74.870 persone alle urne. Quasi la metà dei voti incassati (45,9 per cento). È vero, spesso i casi mediatici crescono come panna montata. Eppure davanti ai numeri, e quindi alla realtà, è difficile opporre resistenza. Donald Trump, almeno per ora, è il vero protagonista delle primarie americane per la Casa Bianca.
Quando il magnate di New York annunciò di candidarsi a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti, nelle fila dei repubblicani, nessuno gli dava un soldo di fiducia. O meglio, tutti pensavano che “The Donald” si sarebbe piazzato di diritto nell’immancabile casella degli “outsider”, soprattutto in questo momento, nell’America post-Obama. E invece no. Se prima Hillary Clinton, front-runner dei democratici, temeva la figura rampante e fresca dell’ispanico Marco Rubio, da qualche tempo ha iniziato a pensare che forse il biondo miliardario Trump non è solo un fenomeno da baraccone (per le varie uscite eccentriche, tra cui quelle anti-immigrati che gli valgono addirittura il biasimo del Papa o per la chioma inquieta oggetto di puntate ironiche virali).
Si parlava di numeri. Il Super Tuesday, il prossimo martedì primo marzo, è nella tradizione delle presidenziali un passaggio cruciale. Per due motivi: votano diversi Stati e vengono scelti molti dei delegati che si riuniranno nelle Convention dei due partiti, in totale 2472 per il Grand Old Party e 4765 per i democratici. Data la proporzione dell’evento, non è escluso che possano verificarsi delle sorprese. Ad esempio, secondo i sondaggi dell’aggregatore RealClearPolitics, nel Texas, serbatoio per eccellenza dei voti dei conservatori, proprio Trump potrebbe essere insidiato dal rivale Ted Cruz mentre ci sarebbe un distacco di circa venti punti tra Clinton e Bernie Sanders, il settantenne senatore del Vermont che ha battuto l’ex First Lady nel New Hampshire.
Guardando in avanti, alle elezioni di novembre 2016, la statistica ripropone più o meno lo stesso quadro del Super Martedì. Stando alle stime del quotidiano Usa Today, Donald Trump guida i contendenti con il 33,6 per cento dei consensi, sopra a Ted Cruz (20,4 per cento), Marco Rubio (16,4 per cento) e John Kasich (9,8 per cento). Dall’altra parte dell’arena c’è spazio, sembra, solo per la battaglia serratissima tra l’ex Segretario di Stato Clinton e per “The Bernie”, separati da una manciata di punti: 47,6 per cento la prima, 42 per cento il secondo. I sondaggi, si dice, lasciano il tempo che trovano e non consegnano certezze, solo tendenze. Di sicuro vi è soltanto la consapevolezza che chi deciderà i giochi saranno gli elettori.
Una banalità, verrebbe da obiettare. Mica tanto, verrebbe da rispondere. Soprattutto in questa partita del 2016 dove il ciclone Trump è sociale, prima ancora che politico. Il suo elettorato è trasversale, pesca in varie fasce d’età e in varie nazionalità, comprese quelle che lui vorrebbe rimandare a casa. Alcuni analisti dipingono questi votanti come parte di una sorta di classe di “delusi”, spaesati e disorientati rispetto alle due grandi famiglie politiche americane. Una reazione oltreoceano sul modello euroscettico di Le Pen o Farage per intenderci. Di recente, sul New York Times, il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman ha scritto che Rubio incarna e pratica l’ortodossia dei vertici del partito mentre Trump ne ha costruita una tutta sua. “Quindi non permettiamo a nessuno di dire che le primarie repubblicane sono una lotta tra un uomo pazzo e uno ragionevole – scrive il Nobel – Stravaganza idiosincratica, inventata di sana pianta, contro stravaganza approvata dall’establishment. E non è chiaro quale sia la peggiore”.
Marta Latini