Nadia Tolokonnikova, passionaria delle Pussy RiotNadezhda Tolokonnikova è una detenuta scomoda per il Cremlino. La passionaria delle Pussy Riot, ha osato denunciare la situazione delle carceri russe e per questo è stata trasferita in un altro istituto penitenziario. Un trasferimento deciso all’insaputa sia del suo avvocato che del marito Piotr Verzilov, il 21 ottobre scorso. Il 7 novembre, giorno in cui la ragazza ha compiuto 24 anni, non c’era ancora nessuna notizia su di lei.

Nadia non c’è più nella carcere di Mordovija, regione dei lager staliniani, ma nessuna conferma sulla sua presenza è arrivata neanche dalla Regione di Krasnojarsk, in Siberia, dove sarebbe stata trasferita, secondo il marito. Il Servizio federale per l’esecuzione delle pene ha fatto sapere che svelerà il nuovo luogo di detenzione della Pussy Riot, solo una volta che lei sarà arrivata lì. Gli avvocati della Tolokonnikova faranno ricorso alla Corte Suprema contro la sentenza che, nell’agosto del 2012, ha condannato la ragazza, insieme ad altre due componenti del gruppo punk – una delle quali, poi, scarcerata – a due anni di reclusione per una preghiera anti Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Anche l’ombudsman per i diritti umani Vladimir Lukin si è detto pronto a sostenere il ricorso di Nadya.

Una persona che sparisce nel nulla, una moglie, una madre di una bambina di cinque anni, una figlia, senza neanche un indirizzo per mandarle una lettera che magari mai arriverà alla destinazione. Così era nella Russia di Stalin descritta dallo scrittore Aleksandr Solzhenitsyn nel Arcipelago Gulag 40 anni fa. Così sembra accadere anche nella Russia di Putin, oggi. “Sa che, per quanto riguarda le idee politiche, sono uno staliniano”, così ha accolto Nadya nella carcere mordova il vicedirettore dell’istituto Yuri Kupriyanov. E’ stato proprio il rapporto con l’ufficiale a causare una denuncia degli avvocati della Pussy Riot. Nadya ha sostento di aver ricevuto minacce di morte da parte del vicedirettore della carcere. “Se tu non fossi la Tolokonnikova, ti avrebbero fatto fuori già tempo fa”, avrebbe detto l’ufficiale alla ragazza. Anche se il Comitato investigativo che ha condotto l’ìnchiesta sul caso non ha riscontrato nulla di irregolare e ha archiviato l’indagine perché “i fatti non sussistono”.

A causare l’inimicizia della direzione della carcere è stata la lettera aperta di Nadya, nella quale il 23 settembre scorso ha annunciato lo sciopero della fame dopo il suo spostamento in una cella ad alta sicurezza. Il documento è una lunga denuncia di violazioni gravissime di diritti umani nella carcere femminile IK-14 della Mordovia nella quale la ragazza era stata detenuta fino a poco tempo fa.

“Insisto che le detenute siano trattate come persone e non invece come schiave”, esordiva Nadia. Per poi raccontare la vita infernale e senza tutele delle sue compagne e di sé stessa. Costrette a lavorare 16 ore al giorno, finché non svenissero, e prese a calci e pugni se cercavano di lamentarsi. Ecco la realtà quotidiana nella quale vivono le donne detenute – ha scritto la Tolokonnikova – senza mai denunciarla, a causa dell’omertà. Racconto che sembra quasi identico a un altro libro testimonianza di Solzhenitsyn, ossia Una giornata di Ivan Denisovich. Un giorno grigio che sembra infinito, una vita senza speranza, se si è detenuti nei lager sovietici, arrestati senza neanche sapere quale sia la vostra colpa.

La denuncia di Nadya è stata smentita dall’istituto penitenziario della Mordovia. Ma il fatto che qualche settimana dopo sia stata catapultata in un’altra carcere, tradisce, quanto meno, l’irritazione della direzione. O la voglia di distogliere l’attenzione dalle violazioni messe in luce dalla Pussy Riot.

Anna Lesnevskaya