Lo Stato Islamico lancia un segnale chiaro agli Stati Uniti: non siamo ancora stati sconfitti. Mercoledì 16 gennaio un attacco kamikaze ha provocato la morte di quattro americani, nei pressi di una affollato ristorante di Manbij, città nel nord della Siria tra Aleppo e l’Eufrate, a una quarantina di chilometri dal confine turco. Un’area in cui gli americani mantengono circa duemila soldati. L’attacco, il cui bilancio totale è di 21 vittime, arriva a meno di un mese dall’annuncio del presidente Donald Trump di voler ritirare le truppe statunitensi dal Paese in guerra, impegnate a combattere soprattutto i miliziani dell’Isis, che ieri ha prontamente rivendicato l’attentato.

I precedenti – L’attentato di Manbij è il primo del suo genere contro soldati americani. Dal 2015 a oggi solo altri quattro militari americani erano morti in Siria: il primo nel novembre del 2016 in seguito all’esplosione di un ordigno improvvisato a nord di Raqqa, altri due per cause non legate a scontri armati e un quarto era morto nel marzo dell’anno scorso in un’esplosione proprio nella stessa zona dell’ultimo attacco.

Pence: il ritiro ci sarà – Nonostante questo segnale, alla Casa Bianca non sembrano intenzionati a rivedere la decisione. Poche ore dopo la notizia, Il vice di Trump Mike Pence ha condannato l’attacco suicida in Siria anche a nome del presidente Trump, ma ha ribadito che gli Stati Uniti continueranno con il piano di ritiro: «Grazie al coraggio delle nostre forze armate abbiamo schiacciato il Califfato dell’Isis e devastato le sue capacità». Aggiungendo poi che nella fase di ritiro «non consentiremo mai che i resti dell’Isis ristabiliscano il loro Califfato malvagio e sanguinario».

Le tensioni in Siria – Un annuncio quello del ritiro dalla Siria che ha creato nuove tensioni nel Paese in guerra. La scelta di far rientrare le truppe ha generato malumori tra i curdi del Ypg, appoggiati dagli americani nella campagna anti-Isis alla quale hanno aderito anche Francia e Turchia. Ed è proprio il Paese di Recep Tayyp Erdogan la causa dei maggiori timori. La paura è quella di un attacco da parte delle truppe di Ankara. Per la Turchia questa comunità rappresenta l’emanazione siriana del Pkk turco, considerato un gruppo terrorista. Dal canto suo, Erdogan, «avendo constatato la determinazione di Trump», è sicuro che gli Stati Uniti non faranno retromarcia perché «sarebbe una vittoria per Daesh», cioè l’Isis. Spettatrice interessata, per ora, è la Russia, alleata del regime di Damasco. Per scoprire la strategia di Mosca bisognerà aspettare il 23 gennaio, data del vertice tra il presidente Vladimir Putin e Erdogan.

I malumori alla Casa Bianca – Anche sul fronte interno però la comunicazione del ritiro ha provocato una grande instabilità. L’annuncio aveva spinto alle dimissioni sia il segretario alla Difesa, Jim Mattis, sia l’inviato speciale Usa per la Coalizione, Brett McGurk. Dell’addio di Mattis ha parlato in una recente intervista tv Jeremy Bash, ex capo dello staff di Cia e dipartimento alla Difesa nell’amministrazione Obama. Secondo Bash, Mattis non tollerava più l’atteggiamento di Donald Trump, considerato troppo accondiscendente nei confronti della propaganda russa e della politica estera di Putin. L’annuncio del ritiro delle truppe sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, «una mossa che ha rafforzato la Russia, l’Iran e il regime di Assad alleato di Mosca».