Almeno 220 morti, oltre duemila feriti e ottomila arresti. É questo il bilancio del governo kazako a una settimana dallo scoppio delle proteste per l’aumento dei prezzi di carburante ed elettricità. L’Asia Centrale è tornata al centro dell’attenzione internazionale e lo ha fatto con violenza. In Kazakistan si respira aria di guerra civile: coprifuoco alle 23, oscuramento di siti internet e social network, negozi e ristoranti chiusi, e 2500 militari dell’alleanza post sovietica, in prevalenza russi, a presidiare strade e palazzi governativi. Le misure adottate dal governo di Qasym-Jomart Tokayev puntano a stroncare la ribellione, mentre si fa largo l’ombra di infiltrazioni straniere: «Le sommosse sono state un tentativo di golpe. Gruppi di militanti armati aspettavano nell’ombra», con un obiettivo chiaro, secondo il presidente collegato in videoconferenza con i membri del Trattato per la sicurezza collettiva (Csto), «sovvertire l’ordine costituzionale, distruggere le istituzioni governative e prendere il potere».
Scintille – Il 2 gennaio 2022 la liberalizzazione del prezzo del carburante lo ha visto raddoppiare in pochi giorni, e si è andato ad aggiungere all’aumento della bolletta elettrica, in parte dovuto anche all’estrazione di bitcoin, per cui è richiesta un’enorme quantità di energia. Il Kazakistan si è infatti affermato come una delle capitali mondiali di criptovalute. Qui si sono rifugiati i “miner” cinesi cacciati dal Paese con la stretta governativa sull’energia, qui hanno sede oltre 90 mila società di “crypto-mining”, il 18% del mercato globale. Ma il Paese è sfiancato anche da disuguaglianze sociali ed economiche, mancanza di diritti e democrazia. Il Paese è ricchissimo di petrolio, gas naturale, uranio e metalli preziosi, ma questa ricchezza è concentrata nelle mani di pochi. Di recente il governo ha svalutato il tange, la moneta nazionale e gli interessi sui mutui e prestiti sono schizzati alle stelle rendendo impossibile ai cittadini il pagamento delle rate. Le elezioni vengono regolarmente vinte dal partito di governo, nella totale assenza di qualunque tipo di opposizione. Il malcontento popolare è infatti diretto anche verso l’ex presidente Nursultan Nazarbayev, con tanto di statue demolite a Nur-Sultan, la capitale che prende il suo nome proprio dall’autocrate, e Almaty, la più grande città del Paese e centro delle proteste. Dimessosi nel 2019, Nazarbayev, 81 anni, ha guidato il Paese per oltre 30 anni e mantenuto un ruolo direttivo nel consiglio di sicurezza nazionale. Oggi è ancora visto come un “presidente ombra”, e mercoledì è arrivata la decisione di sciogliere il governo per placare i manifestanti. Oltre all’arresto del capo dei servizi segreti Karim Masimov per alto tradimento.
Preoccupazione – Dopo la guerriglia della scorsa settimana, la repressione del governo kazako – che ha ordinato di sparare a vista sui manifestanti – si è tradotta in una calma apparente. D’altra parte la centralizzazione dell’informazione, con le autorità che comunicano con i cittadini tramite sms e concedono soltanto quattro ore di internet e social al giorno, rende impossibile avere notizie certe su quello che sta avvenendo nel Paese. Di sicuro l’intervento delle forze speciali russe, per la prima volta chiamate per l’attivazione del Trattato stipulato nel 1992 con le ex Repubbliche sovietiche, preoccupa Stati Uniti e Unione europea. «La storia recente insegna che quando i russi sono a casa tua è molto difficile mandarli via», è stato il commento del segretario di Stato americano Anthony Blinken. Mentre Mosca risponde di non aver invaso nessuno, ma di essere stata chiamata in difesa di un alleato sotto attacco. Da chi? L’ipotesi che sta portando avanti il Presidente Tokayev è quella di migliaia di terroristi stranieri con un piano sovversivo, nonostante i primi due giorni di proteste fossero stati pacifici. Di sicuro la tensione internazionale è destinata a salire, nella settimana di importanti summit per la stabilità dell’Euasia – oggi quello tra Usa e Russia, mercoledì 12 gennaio l’incontro tra il Cremlino e i vertici Nato.