Un limite è stato oltrepassato. Twitter, Facebook e Instagram hanno bloccato ieri l’account del presidente uscente Donald Trump per, rispettivamente, 12 e 24 ore. «Troppo alto il rischio», concordano Jack Dorsey e Mark Zuckerberg. Le stesse piattaforme avevano ospitato la campagna lanciata dal tycoon per sponsorizzare la marcia «per salvare l’America», finita con un’irruzione nel Senato di Washington che in molti non hanno esitato a definire un vero e proprio colpo di stato.
Sospensione – «Come risultato della situazione violenta e senza precedenti a Washington D.C. – si legge in un comunicato di Twitter -,abbiamo ordinato la rimozione di tre tweet postati in precedenza oggi per severe e ripetute violazioni della nostra policy di integrità civile». La piattaforma dell’uccellino azzurro, che in questi anni ha funzionato da megafono delle idee considerate più divisive, violente, anticostituzionali e senza fondamento di Trump, ha questa volta preso una decisione. Netta e radicale. Infatti, scorrendo nella pagina in cui è stato pubblicato il comunicato, viene specificato anche che se Trump non rimuoverà i suoi tweet, l’account rimarrà bloccato. Ulteriori violazioni porterebbero invece a una perenne sospensione dalla piattaforma.
As a result of the unprecedented and ongoing violent situation in Washington, D.C., we have required the removal of three @realDonaldTrump Tweets that were posted earlier today for repeated and severe violations of our Civic Integrity policy. https://t.co/k6OkjNG3bM
— Twitter Safety (@TwitterSafety) January 7, 2021
La severa presa di posizione di Twitter è stata preceduta dalla rimozione da parte di Facebook e You Tube di un video in cui The Donald elogiava i protestanti e li incitava alla rivolta. Chiedendogli sì di tornare a casa, ma ribadendo a più riprese di stare dalla parte giusta, che le elezioni del 3 novembre sono state una «vittoria schiacciante, tutti lo sanno. Soprattutto dall’altra parte». Twitter ha prima impedito di interagire con il contenuto, per poi rimuoverlo integralmente.
Non abbastanza – La policy adottata finora dalla piattaforma di Jack Dorsey si è rivelata in conclusione inefficace. La semplice sovraimpressione di commenti sotto i post dell’ex presidente, utilizzata anche da Facebook, non è stata sufficiente. La motivazione addotta a giustificare la permanenza di contenuti obbiettivamente pericolosi è stata quella di garantire libertà di espressione e di considerare i post elementi di pubblico interesse. Due pilastri fondamentali del concetto di social network. Tuttavia non applicabili al carattere e alla personalità di Trump. In molti hanno denunciato come tardiva l’azione delle piattaforme. «Vi siete sporcati le mani di sangue, Jack e Zuck», si è spinto a dire l’investitore Christ Sacca. «Per quattro anni avete razionalizzato questo terrore. Incitare alla violenza non è libertà di espressione». In particolare Facebook è finito nel mirino delle critiche. In un gruppo chiamato Red-State secession, i riottosi da settimane stavano programmando l’intervento. Foto di armi, munizioni e incitamenti a usare la forza, se necessario. Insieme a nomi e indirizzi di parlamentari e giudici federali. I cosiddetti nemici. Un piano programmato nei minimi dettagli, come dimostrerebbro alcune modalità dell’ingresso dei manifestanti in Campidoglio nonostante la presenza della polizia. Facebook ha chiuso il gruppo ieri mattina.
Fondamentale – Fin dalla campagna elettorale per le presidenziali del 2016, l’utilizzo in un certo senso sapiente dei social netowrk si è rivelato per Trump fondamentale. Ha sfruttato al massimo l’algoritmo di Facebook, rivitalizzato Twitter. Mantenuto una presenza costante e tenuto viva l’attenzione dei suoi milioni di followers. Niente mezzi termini, titubanze o compromessi. Solo la dura realtà, la sua realtà, che è riuscito a veicolare e far passare come verità assoluta per una larga fetta della popolazione statunitense. In autunno però, in occasione della campagna elettorale per le elezioni del 3 novembre, una soglia è stata superata e il semplice commento in sovraimpressione non basta più, nemmeno ai responsabili dei social.