«Lewandowski è assolutamente innocente». Donald Trump difende il responsabile della sua campagna elettorale accusato di aver aggredito la giornalista di un’emittente del gruppo Fox News Michelle Fields durante il comizio dell’otto marzo a Jupiter, in Florida. Poco importa se diversi testimoni hanno raccontato di aver assistito alla scena, e se c’è anche un video della polizia che mostra il violento strattone dato alla reporter, colpevole solo di essersi avvicinata al candidato repubblicano armata di blocco appunti e penna. L’arresto del manager per percosse però non è che la punta dell’iceberg: i media americani segnalano da settimane l’alto tasso di violenza nei comizi di Trump.

I manifestanti contro Trump si sono fatti notare fin dai suoi primi comizi, ma agli inizi del 2016, quando la campagna per le primarie è entrata nel vivo, la situazione è degenerata. Secondo i mezzi di informazione americani la maggior parte non fa parte di movimenti organizzati: spesso si tratta di studenti universitari delle città in cui si tiene il comizio. Eppure sono tanti e non passano certo inosservati: il quotidiano New York Times ha parlato di un «flusso quasi costante di contestatori», a causa dei quali i discorsi del candidato repubblicano sono stati interrotti più volte. E così il livello di tensione si è alzato in modo allarmante.

Gli scontri tra contestatori e membri della security, ma anche tra manifestanti e sostenitori di Trump, formano un lungo elenco. A volte si tratta di episodi di lieve portata, come quando una giovane è stata afferrata per i capelli mentre reggeva un cartello anti-Trump a Washington D.C. In Alabama un uomo ha picchiato e cercato di strangolare un contestatore, e il 3 marzo in Kentucky un piccolo gruppo di suprematisti ha aggredito un nero. Il 9 marzo un sostenitore dell’imprenditore miliardario ha preso a pugni una persona di colore, dieci giorni dopo un nero ha picchiato un altro uomo e lo ha preso a calci anche quando era già caduto a terra. E poi c’è il problema delle proteste.

E Trump? Il candidato del Grand Old Party nega che la violenza sia un problema. Anzi, nega addirittura che esista. Al netto di qualche scivolone – come quando ha commentato l’aggressione di un contestatore con le parole «Forse si meritava una ripassata» – la linea sembra essere quella di fingere che sia tutto normale, come nel caso Lewandowski. Per la commentatrice del Washington Post Alexandra Petri la questione si è ridotta a un puro rifiuto dell’evidenza: “Il giorno in cui Trump ha ucciso i fatti“, titola in un post del suo blog. Intanto il tycoon deve vedersela con i suoi avversari nella corsa alla candidatura per il Partito repubblicano e la competizione tra lui, Ted Cruz e John Kasich si fa sempre più accesa. Il 29 marzo i tre sono stati intervistati dall’emittente televisiva CNN e tra loro sono volate scintille: Cruz ha ostentato sicurezza e Trump ha annunciato di non essere più disposto a sostenerlo qualora vinca le primarie. Il prossimo appuntamento delle primarie è il voto in Wisconsin previsto per il prossimo 5 aprile.

In casa democratica, invece, la sfida tra Hillary Clinton e Bernie Sanders somiglia sempre più a un testa a testa: lo dimostrano i risultati in Alaska, Hawaii e nello Stato di Washington dove a sorpresa è stato Sanders a conquistare più delegati. Il senatore del Vermont ha dalla sua il sostegno dei giovani, ma Hillary piace di più alle minoranze. Per ora il vantaggio dell’ex first lady è ancora ampio: Sanders ha superato i mille delegati, la Clinton ne ha già circa 750 in più. Per garantirsi la nomination alle presidenziali ne occorrono 2383. Il prossimo appuntamento elettorale è quello di New York, dove si voterà il 19 aprile. La favorita, in questo caso, è Clinton.

Chiara Severgnini